Nè pianto vai del vecchio semispento, non del bambino il gemito e il singulto ; non è mite il destin con 1’ irredento. Convien morir d’ inedia e dall’ affanno ; convien alla donna ingozzar l’insulto, neppur si placa ancor l’ira al tiranno. Dopo giornate di viaggio, dopo notte paurose ed insonni, i treni fanno sosta in stazioni sconosciute. Qualcuno osa scendere per provvedere cibo ed acqua e per altri bisogni, ma i tristi convogli non attendono e molte persone vengono abbandonate lungo il percorso, disgiunte dalle famiglie, disperse e vilipese. I treni proseguono attraverso la Stiria e si fermano a Leibnitz. Qui tutti scendono e vengono ricoverati per il momento in alcune baracche a Wagna, nel vicino accampamento dei Galiziani fuggiti dai Carpazi. Dopo due giorni è ripreso il viaggio verso 1’ ignoto. I profughi forzati sostano qua e là per 1’ Ungheria attesi dai latifondisti, dai mezzadri i quali si disputano il numero, come fossero tanti armenti, e la calcolata forza lavoratrice, separando magari per loro tornaconto i figli dai padri, le figlie dalle madri, apre uno squarcio nei loro cuori. Vanno i poveri fuggiaschi nei poderi, nelle masserie, nei casali ad accudire ai lavori di campagna. In qualche distretto vengono trattati come prigionieri e devono fare lunghe contumacie. Altri viaggiano ancora e si sperdono nella Moravia e nella Boemia e nell’ Ungheria. Sono avviliti. Sognano il lontano paese, il lontano campanile che tace di tristezza, privo dei suoi sacri bronzi, muto nel suo dolore come il cuore dei profughi. Gli armoniosi dialetti istriani non sono compresi in quelle lande, gli istriani non possono comprendere i magiari. Quivi non hanno riposo e rimangono dal mag- 23