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il numero dei parroci italiani, ma non si è potuto impedire ai francescani indigeni di andare a studiare nei conventi italiani e ritornarne con una formazione mentale ove d’austriaco entrava assai poco. Presentandosi qui e nella politica commerciale per l’erede del nome e del prestigio veneziano, l’Austria ha finito senza accorgersene col preparare la strada all’ influenza italiana.
  Questa si affaccia assai debole nel periodo che segue alla ricostituzione del Regno e che è segnato proprio in Adriatico dall’infausto nome di Lissa. Abbiamo il Veneto e Roma ai quali pensare, prima di poter permetterci il lusso di gettare lo sguardo sulla penisola balcanica. Criticando la politica estera della Destra al governo dopo la morte di Cavour, come non italiana, Francesco Crispi le rimproverava di non aver saputo preparare "nè le armi, nè le alleanze" in vista della crisi d’Oriente del 1878. Avevamo, è vero, oltre alla tradizione remota di Venezia, i ricordi recenti del Reame di Napoli che manteneva relazioni commerciali oltre Adriatico ed aveva testé congiunto per mezzo del primo cavo sottomarino Otranto con Valona dove prosperava una piccola colonia d’operai pugliesi; avevamo qualche console ricco di cultura storica e di esperienza balcanica, come il De Gubernatis a Giannina il quale ci additava un compito di civiltà in Albania.
  Viaggiando nel 1872 da Giannina a Valona egli osservava: " Interrogato il morto non rispose; ed è naturale; occorre prima infondere vita nel popolo che dorme, od agonizza ; occorre far sì che non siano vuote parole la libertà, la sicurezza pubblica, la libertà, la sicurezza individuale. Occorre suscitare l’amore del lavoro, frenare lo spirito di emigrazione, soffocare sotto al terrore, se è necessario, il barbaro dritto del sangue, e allora il morto risponderà che è vivo, e di