— 61 — essi nell’ore del riposo leggerlo pianamente ai compagni tutti intenti attorno, seduti sulle calcagna. Una lunga conversazione commentava dopo per ore e dilucidava quell’u-mili notizie di storia, di geografia, di scienze naturali, primi rudimenti di cultura che esso recava loro dal mondo. Entrava da Sofia con esso via via il calendario di Hristo Luarasi a dire le dolci novelle del passato e i progressi dell’oggi, la vita che attingevano d’Italia, da Parigi, da Bruxelles, da Londra, d'Egitto e d’America i lontani fratelli partitisi in cerca d'un tesoro da prodigare a quanti ancora vegliavano assorti le lunghe notti di guardia nell’aria frizzante dei pascoli alpini attorno ai laghi solitarii, sotto l’ombra dell’odiato blockhaus onde piombava a un tratto il nemico, il nizam turco, a sottrarre le pecore, a ghermire la piccola guardiana sperduta, invano gridante. Vi son delle pagine di quel modesto libretto di lettura, come Shqypènia e Shqyptaret di Pashko Vasa, che dovrebber esser tradotte per intiero, tanta solidità di dottrina vi si accoppia con tanto caldo, spontaneo e non ostentato affetto di patria. Vi son episodii che dovrebber esser ricordati all'Europa nella storia di questa trentenne lotta per la civiltà, come quello di Abdyl Frashèri bej che sulla piazza di Dibra impreca piangendo alle armi, tradizionale strumento di vendette fratricide, e vede quelle armi attorno a sè, come per incanto, cadere dalle mani della folla in un concorde patto di fratellanza. Questo l’Europa forse ignorava pur ieri quando, nel gesto dei montanari che osteggiavano colla mano sulla canna del fucile non la ferrovia apportatrice di più rapidi scambii morali e materiali, sì qualche progetto destinato a favorire dei programmi di pene-trazione e d’influsso straniero nefasti al paese, scorse solo un inverosimile sintomo di spiriti retrogradi ed incivili.