— 225 — Serbia il traffico della carne umana continua con una insistenza e con un rigoglio degno veramente della più torbida età medioevale. Chi scorre i protocolli dugen-teschi e trecenteschi degli archivi di Zara, Ragusa e Spalato non può volgere un paio di fogli senza imbattersi in qualche atto di vendita di fanciulle slave. Il venditore è regolarmente uno slavo dell’interno e la merce venduta ragazze o fanciulle di 12, 14, 18 anni, qualche volta patarene, ma spesso anche cristiane (de Lasseua de Bossino, de Bosna de Brodo, de Rossa de Arceuo, e indeterminatamente de Bosna, de Rasia, de Crayna ecc.). Sono vendute per pochissime lire e tolte per pietà (la cosa è spesso dichiarata nell’ atto dal compratore !) come servette dai nobili dei comuni italiani di Dalmazia o dai mercanti d’oltre Adriatico l E che dire degli inviati dell’ imperatore turco che nel quattrocento e cinquecento venivano nelle terre slave « ad querendum pueros » ? Il sinodo del 925 e i suoi atti (Povijest, pag. 401-429). Enorme e veramente decisiva sarebbe per la storia dalmata, cosi piena d’ombre nella prima metà del secolo X, l’importanza degli atti del sinodo spalatino del 925 se potessimo avere la garanzia della loro autenticità. Varie e contradittorie sono a questo proposito le opinioni degli storici : chi li crede del tutto falsi (Lucio, Jireèek), chi interpolati (Srebrnic), chi rimaneggiati (Racki), chi autentici (Farlati, Dtimmler, Klaié). Il Sisic è un deciso assertore della loro autenticità. Anche noi, altre volte, parlandone, ci affidammo ad essi come a fonte sicura. Dobbiamo confessare però che in quest’ultimo tempo abbiamo nei loro riguardi concepito dei gravi sospetti. E questi sospetti ci tormentano ancor più dopo aver letto la Povijest. Per poter inquadrare nella storia bizantina, bulgara e serba le logiche conseguenze che da questi atti si dovrebbero trarre, il Sisic è costretto a ricorrere a ripieghi cosi artificiosi e a combinazioni cosi forzate ed innaturali, da ingenerar diffidenza piuttosto che persuasione. Di questo si rese forse conto egli stesso quando, in varie note, volle difendere a spada tratta la attendibilità della fonte alla quale attingeva. Egli ragiona cosi: dato che questi atti ci sono conservati in due collettanee manoscritte del sec. XVII, dato che si sa con sicurezza che un brano di queste collettanee fu conosciuto a Spalato appena al principio del sec. XVI « è impossibile immaginare che nel sec. XVI vi potesse esistere un uomo capace di scrivere, rispettivamente falsificare, in un latino così barbaro... un’intera serie di atti e documenti. .. nei quali non si manifesta nessuna traccia di falsificazione intenzionale. Oltre a ciò tutti gli argomenti discussi in questi sinodi sono in consonanza perfetta con lo spirito dei tempi... tanto la terminologia geografica, quanto le singole persone. La falsificazione, dobbiamo ammetterlo, avrebbe richiesto cognizioni così larghe, quali in genere non si possono supporre nemmeno nella persona più colta di quei tempi. Il falsificatore... avrebbe dovuto usare l’opera di Costantino Porfirogenito ancor prima della sua pubblicazione per le stampe (cioè il 1610) e mentre ancor si trovava in un unico manoscritto migliore a Parigi e in un più recente peggiore a Roma, avrebbe dovuto... ecc.». In tutta questa difesa non c’è nessun argomento che ci persuada. Certo è che gli atti sinodali sono contenuti in una collettanea del sec. XVI; certo è che un brano entrato a far parte di questa collettanea (la narrazione della morte di re Zvonimiro) fu conosciuto a Spalato appena verso l’anno 1510. Ma questi non 15