— 185 — Sul portale maggiore del nostro Duomo — pensa il nostro autore — si dovrebbero riconoscere tre periodi di lavoro; al primo apparterrebbero le figure di santi che lo fiancheggiano e i due stipiti della porta; al secondo l’architrave; al terzo i capitelli delle colonne e il rilievo della lunetta; e perchè sull’architrave è segnato l’anno 1324, il primo periodo deve essere anteriore a questa data, il terzo posteriore, forse del principio del sec. XV; vi si sarebbe dunque lavorato nei secoli XIII, XIV e XV ! Unica concessione che possiamo fare : le quattro statue sono indubbiamente d’epoca anteriore a quella della lunetta. L’esecuzione delle rimanenti parti può essersi trascinata per parecchi anni, ma deve aver culminato intorno al 1324; si cercò di imitare i girali del portale sinistro; l’architrave fu affidato a un « tajapiera » che non si curava di seguire i modelli classicheggianti che avevano servito per gli stipiti. Alla lunetta si potrebbe benissimo riferire la data segnata sull’architrave, la quale crediamo sia quella in cui fu pure scolpito l’elegante occhio superiore della facciata. Errore principale del nostro autore è il ritenere egli che la consacrazione del tempio, fatta da L. Periandro nel 1285, sia avvenuta a costruzione finita; è invece quasi certo che essa ebbe luogo non appena le funzioni sacre furono possibili nell’interno della chiesa. «Nei documenti — scrive il Brunelli — si fa menzione del capitolo e delle dignità capitolari; e poiché non è detto che officiassero altrove, bisogna ammettere che servissero alla basilica. La quale deve esser sorta un po’ alla volta dalle rovine, santificata pure un po’ alla volta in quelle parti che venivano ridate al culto». Della lentezza della ricostruzione è prova l’anno 1332 scolpito sul ciborio dell’altare maggiore. È così che quelle due date, il 1285 e il 1324 sono dal Nostro interpretate come termini ante quos e post quos con i risultati che abbiamo visto. Altro errore — abbastanza comune, del resto — è l’ammettere che gli artisti che lavoravano ad un’ opera d’arte complessa, come lo sarebbe la facciata d’una chiesa o un grande portale, fossero tutti non solo di uno stesso grado di capacità, ma di una stessa educazione artistica, di uno stesso gusto, di una stessa provenienza, che quindi ogni più insignificante variante nell’ esecuzione di una decorazione si debba ascrivere ad altro periodo di lavoro. Sono anche la presenza del motivo improvvisato sul posto dallo scalpellino, il ripiego inaspettatamente necessario, l’esecuzione di particolari imprevisti, le ragioni per cui nelle costruzioni medioevali s’incontra spesso la nota capricciosa, personale, che le avviva, a differenza di molte costruzioni moderne, oppresse da una minuta e fredda ponderazione per ogni centimetro quadrato della loro superficie. Sarebbe infine fatica sprecata seguire il nostro autore nella questione da lui posta, se, cioè, a studiare per il nostro Duomo i modelli pisani fu mandato espressamente a Pisa un artista di qui, o se un artista di Pisa fu mandato a Zara! Preferiamo la chiusa del suo studio sulla nostra chiesa, ove riassume le circostanze che determinarono l’influsso dell’architettura toscana sul nostro maggior tempio. «La Dalmazia — scrive egli — a mezzo della città di Zara segue attentamente ogni novità che si manifesta nel campo dell’architettura, e da sola e di sua iniziativa, non per pressione d’altri, accompagna passo a passo il movimento, senza curarsi del fatto di trovarsi sotto l’autorità di Venezia. Ma se si pensa che a Venezia non si constata per così dire nessun sviluppo di architettura romanica, ci si convincerà che la città delle lagune nulla di nuovo poteva offrire che attirasse l’attenzione di altre città». Ciò è perfettamente vero. Quando Zara e la Dalmazia avranno incominciato a costruire i loro palazzi e le loro chiese nello stile che è peculiare di Venezia, avranno cessato di avere un’architettura