— 54 — l’appaltatore del dazio le esamina e le tassa, la gente paga, lo scrivano riscuote ed annota. Un suo registro, lottando fieramente coi secoli, è giunto malconcio ma vittorioso sino a noi. Devastato dall’ umidità e dal tarlo, mancante di carte, tuttavia a chi lo interroghi con pazienza, esso narra non solo l’andare e il venire dei compratori e dei venditori, ma li narra nella lingua che a Spalato si parlava allora. Sono proposizioni brevi e secche, aride e monotone, ma anche in esse piace sentire l’antico sapore del volgare spalatino trecentesco. Se i limiti, necessariamente ristretti, di questo lavoro ce lo permettessero vorremmo pubblicarlo tutto. Ma anche i brevi estratti che ne diamo, serviranno, speriamo, a farne conoscere l’importanza e la natura. Come mai esso ci è giunto? Difficile domanda, alla quale tuttavia tenteremo di rispondere. 11 registro in parola comprende gli anni 1358-1360. Nel 1357, ai primi di luglio, gli spalatini, stanchi della guerra che loro faceva l’esercito ungherese, congedarono onorevolmente il rappresentante della repubblica di Venezia, restituirono in integro le libertà municipali, invitarono ser Gentile da Cagli a venire a reggerli come podestà e resero omaggio a Lodovico d’Ungheria. In quest’occasione tutto il sistema tributario subì una radicale riforma. Specialmente i dazi, che costituivano il reddito più notevole del comune, furono riordinati e l’appalto ne fu fatto su basi diverse e a diverse condizioni che non sotto Venezia. L’importanza della riforma consigliò forse che del provvedimento, e specialmente della sua pratica applicazione si tenessero documenti più particolareggiati e più precisi che non fosse la semplice deliberazione del Consiglio Generale. Forse per questo si serbò il nostro registro che mostra appunto la pratica applicazione del dazio del commercio e della zueca nel primo anno dopo la cessazione del dominio veneziano. E così esso giunse sino a noi, confuso con pochi « libri consiliorum » e con alcune « rationes massariorum » del comune spalatino. Ancora un documento (n.ro XXI). Ma non più arida prosa notarile nè mercantesca; non più formule giuridiche nè partite di ragioneria. Entriamo nel regno dell’arte. Arte di popolo che in versi freschi e vivi, anche se disadorni, effonde l’onda del suo mistico anelito a confondersi con Dio; arte che canta le virtù della Vergine Beata, stella rilucente che irradia il mondo dei suoi splendori. Siamo a Spalato nella primavera del 1382. Forse in un chiaro mattino di maggio i battuti di qualche fraglia percorsero cantando, avvolti nelle loro cappe, flagellandosi, le calli e i volti della città dioclezianea. E dalle loro bocche usciva una lauda, una di quelle laude che, qualche decennio più tardi, il Bianco Ingesuato fermò nei mistici versi del suo laudario. Un membro della curia, un camerlengo forse, certo uno spalatino che bazzicava nella