— 194 — fra «•Illyricus» e «Sclavinus» (Grada, II, 11, Zagabria, 1899). Noi ricorderemo ancora — sempre per l’epoca più remota — Elio Lampridio Cerva di Ragusa (1463-1520) che ripudia la « stribiligo illyrica » (Starine, IV, 171) e il De situ orae Illyrici di Palladio Fosco (pubblicato nel 1544 e per la seconda volta nel 1667 dal Lucio nel suo De Regno Dalmatiae ecc.) che avrà certamente contribuito alla diffusione del nome «illirico». Però bisogna osservare che questa prima generazione di umanisti distingue ancor bene l’illirico dallo slavo e attinge le sue informazioni da autori che non conobbero gli Slavi: Pomponio Mela, Strabone, i due Plinii, Tolomeo, Virgilio e Appiano Alessandrino nel suo « De bellis Illyricis». Lo fa cosi il MARULO nella dissertazione In eos qui beatum Hieronymum Italum esse contendunt (ed. dal LUCIO), lo fa COSÌ il TUBERONE nel SUO Commentario de temporibus suis del 1490-1522 (ed. Occhi, Ragusa, 1784) e il Sisgoreo stesso. Solamente Vincenzo Pribevo o Priboevo da Lesina in un’orazione De origine successibusque s/avorum edita a Venezia nel 1532 e tradotta in italiano nel 1595 (Venezia) da Belisario Malaspalli di Spalato, comincia a confondere la realtà storica e sostiene che Illiri, Traci, Geti, Macedoni, Misi derivano tutti dagli antichi Slavi e questi da Tira, settimo figlio di Giafet, e sillogizza « verum quia Dalmata et proinde Illyrius ac demum Slauus (sum....) » Ma anche più tardi ci sarà ancora netta la distinzione fra slavo e illirico (Lucio, Farlati, le Storie e gli annali di Ragusa) anche se « illirico » nella pratica abbia acquistato il significato di « slavo ». A completare infine le notizie che il Murko ha raccolto sulla diffusione e sulla durata del termine « illirico » in libri e pubblicazioni che servono molto alla perpetuazione d’una voce (grammatiche, vocabolari, ecc.) e che, nell’ opera citata, arrivano appena al secolo XIX., si deve ricordare, p. es., che un Andrea Stazio pubblicava a Zara una Grammatica della lingua illirica nel 1850 e che a Zara pure nel 1865 si traduceva in italiano la Grammatica illirica del Babukic. A Trieste Giovanni Jurasich di Veglia ancora nel 1863 pubblicava un Dizionario Italiano-Illirico. E lo stesso Parcic, editore dell’ ultimo messale glagolitico del 1898, pubblicava nel 1873 una Grammatica della lingua slavo-illirica. Quanto mai comprensibile è la prevenzione che il M. dimostra contro un « romantische Überschätzung der slavischen Kirchensprache » (« Slavia », V, 2, 298). Sarebbe desiderabile che altrettanta moderazione la critica storica degli Slavi usasse in genere per la letteratura slavo-ecclesiastica, sia glagolitica o cirilliana, che croata in caratteri latini I Come negli esempi citati finora, così in tanti altri casi che qui si sorvolano, non possiamo che approvare e lodare lo spirito informatore del M. Ma non sempre possiamo condividere le sue idee. Anzitutto in certi momenti storici o in elastiche interpretazioni letterarie che facilmente procedono da predisposizioni sentimentali e da preconcetti politici. Non crediamo, cosi, si possa fare appello a Bern. Duhr (Geschichte der Jesuiten in den Ländern deutscher Zunge) per sostenere che i Gesuiti dal 1620 predicavano a Trieste in italiano, sloveno e tedesco e che a Gorizia (non nel circondario!) dal 1683 la predica slava risuonava nelle sue chiese tutte le domeniche e in altre festività, con grande concorso di popolo. Ci sono ben prove contrarie. Dal Tamaro (Storia di Trieste, Roma, 1924, v. II, 138) si apprende che i primi gesuiti vennero a Trieste nel 1619 in forme molto modeste: due profughi dalla Boemia; che la loro chiesa si incominciò a costruire nel 1627 e fu finita nel 1682; che la città fu loro molto ostile perchè anzi che curare lo studio dell’ italiano insegnavano il solo