— 18 — a preleggere a Venezia nel 1484, donde quasi subito, causa la peste, egli si allontanò per mettersi in salvo a Verona, ove dimorò un anno. Il Fortunio nel 1487 sarebbe stato scolare del Sabellico da soli due anni, e non poteva avere quindi nè l’età nè l’autorità, per illustrare col proprio nome un libro di lui. Ne viene perciò che i suoi studi debbano essere stati anteriori alla scuola, stabilita in Venezia dal Sabellico; e che nel 1487 fosse già e d’anni e di fama nella sua piena maturità. Il Fortunio visse poi esercitando l’avvocatura, pubblicando versi d’occasione, raccogliendo poesie di scrittori italiani inediti, e mettendo insieme regole grammaticali e le eleganze della tersa lingua volgare. Dei suoi lavori ci fanno fede il permesso di stampare e il privilegio di proprietà letteraria per anni dieci, da lui domandati al governo veneto, e concessogli il 28 novembre del 1509. Nel quale documento, pubblicato per la prima volta da R. Fulin, nel 1882, fra i «Documenti per servire alla storia della tipografia veneziana » (pag. 92) si legge : « Qianfrancesco Fortunio ha composto et de zorno in zorno compone versi in laude de questa Excellentissima Republica, et ha composte regule gramaticali de la tersa vulgar lingua, cum le sue ellegantie et hortografia, et altre opere a niuno injuriose. Item expone haver opere de altri excellenti poeti fin hora non impresse, et volerle per comune utilità et dilectatione farle imprimer. Ma aziochè, cum damno et vergogna de esso, altri non le imprimano et corrote, chiede che le opere che lui primo farà imprimer godano privilegio d’anni dieci dacché saranno stampate, sotto le pene che alla Signoria parerà». Il Fortunio deve essere stato un legista di molta riputazione, se gli Anconetani lo vollero loro podestà; ed un poeta non ispregevole, se potè nelle lettere essere maestro alla Stampa. Ciò risulta dal sonetto seguente, che si legge fra « Rime » di madonna Gasparina, dedicato da lei al Fortunio : Mille fiate a voi volgo la mente, Per lodarvi, Fortunio, quanto deggio, Quanto lodarvi, e riverirvi io veggio Dalla più dotta e la più chiara gente; Ma dall’opra lo stil vinto si sente, Con cui sì male i vostri onor pareggio; Onde muta rimango, ed al ciel cheggio O maggior vena, o desir meno ardente. lo dirò ben che, qualunque io mi sia, Per via di stile, io son vostra mercede, Che mi mostraste sì spesso la via; Perchè il far poi del valor vostro fede, È d’opra d’altra penna che la mia, E il mondo per se stesso se lo vede.