— 337 — politica e di letteratura parole non volgari, 'e congegnate in maniera sua, che lo mostravano nato, più che a cospirare, a ispirare... L’abbracciai con affetto nè più 10 rividi ». Pur volendogli bene, il Tommaseo capi che un abisso li separava in alcune questioni di principio. E propugnò idee e soprattutto metodi contrastanti con quelli dell’esule [genovese nella corrispondenza che tenne dietro a questo loro primo ed ultimo incontro. Sono d’altra parte noti i giudizi che sull’opera Dell’ Italia dette 11 Mazzini. Il dissenso si manifestò più grave quando nel 1844 il Mazzini prese calorosamente le difese della memoria del Foscolo contro le acri accuse del Dalmata, che egli giudicava «uomo d’ingegno non comune, ma irreparabilmente travolto da credenze retrograde, da una vanità irrequieta», e al quale negava il diritto di giudicare il Foscolo morto esule, non avendo egli saputo rassegnarsi ai dolori della servitù e dell’esilio. Conosciute queste parole, il Tommaseo rispose con molta maggior moderazione di quanto ci si poteva aspettare e soltanto ricambiò con acre disdegno la frecciata lanciatagli dal Mazzini: «Quanto poi all’entrar, ch’egli fa, giudice di alcuni atti della mia vita, l’Italia, spero, mi dispenserà dal portare la mia coscienza appiè di cotesto declamatore». Il Mazzini non ribattè. Non insistiamo di più sulla natura di questo dissidio, essendoci occorso di trattarne già in questo volume, nella recensione dell’opera su Venezia del Tommaseo, citando appunto il Qambarin, e non vogliamo ripeterci. È invero assai edificante constatare come nei giorni radiosi della rivoluzione, spontaneamente, senza sapere l’uno dell’altro, il Mazzini e il Tommaseo avessero sentito la necessità di riaccostarsi, sacrificando i loro contrasti ai superiori interessi della Patria. Fu ripresa cosi tra i due quella relazione epistolare, che getta viva luce sul carattere di essi e su alcuni fatti e avvenimenti di quel fortunoso periodo. Si sa come il Manin avesse per qualche tempo vagheggiato l’idea di far chiamare il Mazzini a Venezia, e come ne fosse dissuaso dal Tommaseo, che a tale proposito scrive: «Ma s’io non avessi amato Venezia, e non pensato che allo sfogo di misere vanità, colto il destro, avrei gioito che il Mazzini venisse, sicuro d’averlo fra due di meco contro il Manin ; e mi sarei poi associato a’ mazziniani e armatili della popolarità mia; della quale io usai, in quella vece, per reggere il Manin contr’essi; e solo allora mi tenni con loro, quando bisognava riprendere le inutili ambizioni di lui, a lui stesso e a Venezia disonorevoli, e quando eccitare il suo languore alla difesa della città derelitta...» (op. cit.). Il Gambarin esprime il suo stupore, di fronte a queste affermazioni del Tommaseo, che egli «potesse temere di contrasti fra il Mazzini e il Manin e non vedesse ben più probabile il dissidio fra il Mazzini e se stesso », carattere assai più difficile e scontroso. Nella citata recensione convenivamo in qijfsto giudizio col Gambarin. Ora dobbiamo correggere noi stessi. Da quanto infatti è stato posto in chiaro, con solida documentazione, in questo studio sulle relazioni tra il Tommaseo e il Mazzini nel ’48-’49, risulta evidente che se essi erano separati da un vero baratro per quanto riguarda alcune questioni di principio, nel resto si trovano più d’accordo tra loro, che non entrambi col Manin, in tutti e due essendo poi anche quel bisogno di coerenza che, iniziata un’ azione, li portava ad andar fino in fondo. A questo proposito ricordiamo la giusta lode che il Mazzini tributò al Tommaseo, per il suo contegno a Venezia, scrivendogli da Ginevra, il 20 ottobre del ’50: «Voi avete serbato fino agli estremi il contegno virile che vi si addiceva». (Scritti editi ed inediti XLIV, 195,). Possiamo altresi aggiungere, che quella che fu la radice più profonda del dis- 94