— 298 — l'attore valente in scena, che misura il grido e la rabbia, e prepara la lagrima», (Pref. p. LXXV), che a lui egli potesse sembrare « ambiguo sotto la maschera della franchezza». Nè egli fu il solo a giudicarlo così. A questo giudizio, p. es., si riduce in fondo anche quanto il Ranalli scrive, a proposito degli sforzi fatti dal Manin per sedare il popolo tumultuante al quale egli solennemente prometteva che si sarebbe fatto uccidere piuttosto che sottoscrivere alcun patto disonorevole: «E così egli dicendo, più tosto deludeva la pubblica inquietudine, di quello che mentisse veramente; perchè dall’autorità del trattare spogliatosi, l’aveva scaricata addosso al municipio: che è quanto dire, erasi posto in salvo dal farsi uccidere, anzi che vergognosa convenzione sottoscrivere» F. Ranalli: (Le istorie italiane dal 1848 al 1855, Le Monnier, Firenze, 1859, voi. IV, pag. 200). Ma quali si siano i suoi dissensi col Manin, quali i giudizi, quali le accuse che il Tommaseo gli mosse, accuse sulla fondatezza di parte non piccola delle quali oggi si può dire quasi raggiunto l’unanime consenso degli storici, resta pur vero che quando egli non si lasciò trascinare dalla passione a giudicare con troppa asprezza e talvolta con palese ingiustizia, quando non cedette alla violenza verbale a sfogo del suo gusto salace, quando fissò quel suo sguardo penetrante nella realtà,bandendo dall’animo suo prevenzioni e intransigenze, il Dalmata seppe anche sinceramente riconoscere i pregi rari e i meriti altissimi che rendono cara a tutti gli Italiani la figura del Dittatore di Venezia, e dargli la lode che gli spettava, e provare per lui stima ed anche affetto, e ritrattare, facendone ampia ammenda, biasimi ingiusti o ingenerosi, e ammirarlo commosso. Così questo Ministro della rivoluzione che, come giustamente osserva il Ouerri, palesa in troppe pagine di questo libro la sua «passione antirivoluzionaria», loda nel Manin la repulsione al disordine, l’istinto all’amore dell’ordine che era in lui non nella misura comune, «ma come suole nelle anime meglio temperate». Cosi parlando deli’«umile casa dov’egli aveva con l’ingegno nutrita decorosamente la sua povertà, ed in lavori manuali preso nobile sollievo da que’ della mente; dove aveva a lungo patito della infermità de’suoi cari; dond’era apparito in subita luce...», afferma che quella casa sarebbe rimasta, « non ostante i suoi falli, memorabile ai Veneziani, e documento di civile modestia». Così nel riconoscere l’integrità e il disinteresse del Manin, che un giorno dichiarò unico suo desiderio che sul suo sepolcro si potesse scrivere: «Qui fu un galantuomo», il Tommaseo che in uno scatto d’indignazione (non per quello che il Manin aveva accettato da Venezia, ma per quello che i parenti del Manin affermavano esser stato dato al Tommaseo che viceversa non aveva nè chiesto nè accettato niente) era stato verso di lui ingenerosamente ingiusto, lo loda sinceramente ed affettuosamente, perchè quando molti impunemente rubavano, egli «astenne le mani da lucri immondi; anzi nell’ottobre rifiutò l’assegnamento propostogli in Assemblea, dicendo che quando non p )trebbe di suo, ricorrerebbe agli amici. E di ciò fece male, dacché siccome esso il Manin offerse in maggio alla patria una scatola d’argento che aveva, e poi altre argenterie, e io nulla d’argento perchè non n’avevo, così dovevo io rifiutare ogni assegnamento perchè di mio avevo qualcosa, ed egli accettarlo perchè non aveva se non la sua professione a campare sè e la famiglia, nè di quella s’era arricchito, egli non sano e non avido ». Qui si rivela la nobiltà d’animo del Tommaseo, che in un altro passo lascia trapelare la sua commossa ammirazione per la semplicità dell’uomo che, a Vicenza, sul campo tonante della mitraglia, dove si trovò nel maggio insieme al Tommaseo nelle prime file, «consigliato di ripararsi dietro a un ciglio, vi si pose,... adagiatosi in sull’erba; e