— 117 - ne prendeva congedo. Vi sistemò e diede unità alle diligenti osservazioni e note, raccolte durante gli anni d’insegnamento, formulando colla consueta chiarezza e concisione regole ragionate e spiegandole con numerosi esempi, scelti con una certa larghezza di criteri, lontani da rigidi esclusivismi e da capricciose limitazioni. La materia, secondo gli schemi in uso, è divisa in cinque parti, in cui tratta dei segnacasi, degli articoli, del pronome, dei nomi, dell’uso dei verbi, delle preposizioni, degli avverbi, delle congiunzioni e dell’ortografia. L’opera riuscì d’innegabile utilità e godette grande diffusione, a giudicare anche solamente dalle numerose ristampe che ebbe durante il Settecento (a Venezia nel 1720, 1731, 1739, 1751, a Roma nel 1765). Considerando i giudizi che alcuni contemporanei diedero della grammatica del Nostro — come quello di Girolamo Gigli di Siena, riportato nel libro del Rosan, — si riconosce subito che il libro piacque; riscosse anzi tosto il plauso degli Accademici della Crusca e di altri cultori della lingua italiana. Fra questi lavori e le consuete occupazioni religiose volgeva tranquillamente al tramonto la vita del Rogacci. Tramonto sereno, com’ era stata tutta la sua giornata, illuminato dai bagliori più vivi della sua intensa vita spirituale. Quanto più scemavano le sue forze fisiche e la gracile salute declinava, tanto più viva brillava in lui la fiamma di quell’amore divino, che così persuasivamente aveva inculcato colle sue opere. Sulla scorta delle testimonianze dei contemporanei, che ebbero il Nostro in concetto di Santo, il Rosan descrive con vivacità alcuni episodi veramente commoventi dei suoi ultimi giorni e la sua morte edificante, avvenuta a Roma 1’8 febbraio 1719, degno coronamento di quella pia e laboriosa esistenza. Pochi anni prima di morire, nella seconda parte dell ’Uno Necessario, il Rogacci aveva scritto con parole che gli prorompevano dal fondo dell’anima il suo lamento sulla vita terrena ed espresso il cocente ed inestinguibile anelito verso la luce: « Quale gaudium mihi est, qui in tenebris sedeo et lumen caeli non video ?Che mi consolate, o amici? Che mi lusinghi, o fortuna? Che m’invitate a godere, o beni della terra? Non è, non è da voi