— 281 — sul Manin, nato da una recensione dell’opera dell’Errerà, afferma a proposito del Toffoli (l’artigiano chiamato, secondo gli usi quarantotteschi, a far parte del governo di Venezia), dopo essersi chiesto quali lumi potesse portare alla direzione della cosa pubblica quel povero artiere: « ma forse, con un po’ di buon senso, e non avendo la pretesa della scienza infusa, sarà riuscito almeno soltanto inutile, non dannoso, come il Tommaseo ed altri, incapaci del pari in fondo di reggere uno Stato e di condur gli affari, ministri ed ambasciatori pour rire, da commedia (Fame usurpate, Laterza, Bari, 1912, p. 347). Conforme invece a verità ormai pacifica è quanto l’Errerà (Daniele Manin e Venezia — 1804-1853—, Le Monnier, Firenze, 1875) afferma di alcune note del governo della repubblica veneziana del ’48-’49, che egli dice giustamente « ispirate ad una lirica e ad un sentimento, che poco si addicono alla ragion di Stato», soggiungendo che «per ciò soprattutto si distinguono gli scritti del Tommaseo». È per l’appunto in questa foga inesausta di sentimento, è in queste effusioni liriche, che nell’opera che esaminiamo sono sparse un po' dappertutto e ne costituiscono come il motivo poetico, uno dei meriti più salienti di essa. Da pochi o molti giudizi del Tommaseo si potrà, anzi talvolta si dovrà, per spirito di giustizia, dissentire; non ci si può invece sottrarre al fascino della sua arte, quando dimentico per un momento delle sue lotte e dei suoi crucci, al nome di Venezia, al pensiero dell'Italia che deve risorgere, dinanzi ad atti di eroismo o altamente umani, egli commosso si esalta. Non sempre infatti, anzi di raro, egli contiene la sua commozione nella forma volutamente pacata del comento. Cosi, ad esempio, quando rappresenta l’entrata nell’Arsenale, per far parte cogli insorti, dei soldati del reggimento Wimpffen, veneti quasi tutti, i quali : « sentendo da cittadini ritenuto il loro maggiore, tedesco, uomo buono ed amato, poste giù anch’essi le insegne austriache e avventuratisi all’incerta novità, pur venivano ansiosamente cercando di lui, e richiedendo che si liberasse, con piglio tra di preghiera e di minaccia, di gioia per le cose intervenute e di compassione per esso, con voci alte ma impresse di virile tenerezza. Il quale atto, onorevole non so se più agl’italiani o al Tedesco, io non posso rappresentarmi alla mente senza commozione profonda, e senza mi si riaccenda nell’anima consolata la speranza nella immarcescibile bontà dell’umana natura: e l’ho qui registrato, perchè mi pare tra tutti di quella giornata il più gentile e il più generoso » (p. 77). Questa commozione, dinanzi all’eroismo dei duecento dell’Artiglieria veneta volontaria Bandiera e Moro, prorompe coll’impeto di un vero e proprio inno: encomiati i gendarmi del maggiore Somini per il loro contegno nel ristabilire le sorti nel Forte Sant’Antonio, dove a una sessantina di austriaci era riuscito « con impeto di ardimento tanto più memorabile quanto men solito in essi », di impossessarsi di una batteria, mettendo a grave repentaglio la difesa della città, il Tommaseo si esalta al ricordo delle imprese più eroiche dei duecento Bandiera e Moro: «Ma più memorabili sono i dugento Bandiera e Moro, eletto drappello, eh’ è la parte, se così posso dire, più fragrante ed eterea delle cose in que’ diciotto mesi succedute in Italia, insieme con la schiera degli studenti di Siena e di Pisa, che, guidati da professori dotti ed illustri, rinfrescarono e purificarono a Curtatone 1' onore dell’ armi toscane, state ministre già d’odio, e però di tirannide grave, sopra i figli de’ figli. Se non che i dugento di Venezia più mirabili in questo, che non preparati dal comune consorzio e da ardenti letture e colloqui e dai rumore di tutta Italia e d’Europa, che in Toscana echeggiava ma non penetrava nelle Lagune; non inebriati da quel^tripudio di feste in cui la Toscana decrepita rinfanciullì per due anni ; tutf a un tratto usciti