- 296 - che della storia ha il Tommaseo, che bisogna cercare l’origine deila sua intemperanza di giudizi, talvolta palesemente ingiusti. Questo « violento amatore del meglio », come felicemente lo definì il Guerri, sembra non potersi capacitare che la storia è Storia umana, epperò necessariamente imperfetta, cioè mista di bene e di male. Nel giudicare avvenimenti ed uomini egli appunta la sua mente non a quello che è, ma a quello che avrebbe potuto essere, cioè a un ideale astratto, fuori d’ogni possibilità umana. Così fece per la rivoluzione di Venezia. E siccome di essa vedeva la personificazione nel Manin, contro di lui, che pure ebbe meriti grandissimi, alcuni riconosciutigli del resto apertamente e talvolta non senza un fremito di commozione dal Tommaseo stesso, egli appuntò gli strali della sua critica implacabile più ingiustamente talvolta che contro gli altri, andando nell’ardore della sua requisitoria di là dai limiti del giusto e dell’equo, trasmodando anche nella violenza e nella, diciamo pure, acrimonia della forma espressiva. Dal profondo insanabile dissidio tra il Tommaseo e il Manin, generato e dal loro opposto modo di intendere la politica e ogni cosa a quella attinente, e dall’ intransigenza con cui il Tommaseo concepisce la coerenza stessa, scaturisce anche quella che è, forse, la più ingiusta delle accuse che egli gli muove, d’avere cioè il Manin da prima solennemente proclamata la repubblica, e poi, mutando « avvocatescamente bandiera », chiesto « gli aiuti di un re, e poi d’ un altro re, e poi di un terzo re ». Di questa accusa, come di tante altre mosse dal Tommaseo al Manin, il Prunas fa nella prefazione un esame esauriente e, nell’assieme, convincente, per concludere che il Tommaseo non riuscì a comprendere il valore altissimo del sacrificio delle proprie convinzioni personali, compiuto dal Dittatore di Venezia nell’ interesse superiore della patria italiana. Aggiungiamo ora da parte nostra, che appunto per questo sacrifìcio dal Manin compiuto, molti poco disposti ad esaltarlo, lo elevarono d’assai nella loro estimazione. Valga come esempio quanto ne scrive l'Imbriani : « (Manin) presidente e dittatore di una effimera repubblichetta e microscopica, sarebbe ora dimenticato dalla nazione, se, come altri, avesse perfidiato nello sterile repub-blicaneggiare (e mi si perdoni l’epiteto poco parlamentare) stolido; rimarrebbe al più al più venerato da un partitello, da un manipolo, da una chiesuola, da una setta. Noi non lodiamo ed onoriamo il presidente ed il dittatore: ma un pnco il presidente, che, sebbene di mala grazia, seppe ripudiar la repubblica il tre luglio M.DCCC.XLVI11 e far votare la fusione col Piemonte ; e moltissimo 1’ esule, che essendo stato presidente e dittatore, ancorché di repubblica effimera e microscopica, seppe passare bravamente il Rubicone, rinnegare il passato, rinnegare lo assurdo ideale giovanile, ravvedersi, distruggere il partito repubblicano, far tacere le discordie, che avevan cagionato in gran parte le catastrofi e le vergogne del quarantotto, persuadere tante teste deboli ed incolte, unite però a cuori generosi e braccia forti, della necessità e della bontà della Monarchia unitaria. Questo atto il rende caro alla nazione tutta e pregiato. Questo atto rivela più fortezza d’animo, che la presa dell’Arsenale e la difesa di Venezia, e giovò molto più all’ unificazione d’Italia ed alla liberazione. Tolto questo, la vita di lui sarebbe quella di un agitatore e d’un rivoluzionario volgare, come ce n’ha tanti» (Fame usurpate, pp. 340-41). Abbiamo voluto citare intero questo passo di Vittorio Imbriani, che col nostro Tommaseo ha più di un’analogia come scrittore e come uomo, specialmente per quella sua natura retta, anzi rigida e particolarmente disposta a vedere nelle cose umane la parte difettosa, anche perchè dal paragone di questo suo giudizio crudo, aspro, in gran parte ingiusto rispetto alle virtù ed ai meriti reali del Manin, risulti quanto il