— 284 — Eglino erano rimasti gli ultimi Veneziani e gli eredi veri de’ Michieli e de’ Dandolo ». E se di questi sentimenti restano, testimonianze indistruttibili e commoventi, le lacrime dei Dalmati seppellenti i rossi gonfaloni di San Marco sotto gli altari delle loro chiese latine, e il sublime epicedio del conte Viscovich a Perasto; dei sentimenti dei Veneziani verso i Dalmati fedelissimi è indice evidente, tra il resto, il consiglio che un senatore dava all’ultimo doge dell’agonizzante Repubblica :« Tolè su el corno e andè a Zara ». Il Tommaseo, che aveva accolto, non per ambizione, ma perchè il ritirarsi mentre durava il pericolo, sembrava a lui e poteva sembrare agli altri un tradimento, l’invito rivoltogli dal Manin di partecipare al governo, frustrò invece la sua speranza di farsi da lui invitare anzi pregare di assumere la direzione della cosa pubblica. E nelle pagine (123-24), in cui descrive il colloquio avuto in casa del Manin, e poi l’altro nel palazzo del Comune, presenti pochi che vi si trovarono a caso insieme a lui, dove al Manin, letti i nomi di coloro che il Mengaldo doveva proporre in Piazza, «fu forza dar se stesso per capo, di sua propria bocca: tal solitudine aveva egli intorno a sè fatto infin dalle prime 1», confessiamo di sentire non so quale maligna compiacenza, forse per essere il Tommaseo riuscito a sventare le manovre, abili quanto inutili, del Manin per raggiungere il suo intento. Anche il secondo intento del Manin, di attrarre, valendosi del nome di lui, la Dalmazia nell'orbita della rivoluzione, fu dal Tommaseo consciamente, deliberata-mente frustrato. Errò il Dalmata in questo? Non esitiamo di affermare che sì, anzi che è stato questo il suo più grande errore politico. A nessuno infatti può sfuggire quale giovamento avrebbe potuto apportare, quale valore rappresentare, e allora e poi, per la causa italiana, l’entrata nella lotta della Dalmazia, che si sarebbe trascinata dietro con tutta probabilità anche le altre terre dell’Adriatico orientale. Bisogna tuttavia riconoscere che questo grave errore politico del Tommaseo, di cui egli non mostrò, credo, mai di essersi avveduto e quindi per esso tormentato, come per molti altri minori, può trovare delle spiegazioni e delle attenuanti anche se non delle giustificazioni. Ma vediamo innanzi tutto su tale questione il pensiero del Tommaseo, con le sue stesse parole : « Ma in Istria e in Dalmazia gli abitanti delle coste, italiani o d’ origine o almeno di lingua e di costumanze, e per prevalenza d’incivilimento e d’ averi e per consuetudine predominanti agli Slavi di infraterra, aspettavano o invocavano la novella bandiera, alla quale si sarebbero tutti, non arresi, ma dati. E il colonnello Sartori... scriveva allora da Zara, e riscriveva, attendendo co’ suoi del reggimento Wimpffen, italiani, e quasi provocando, un mio cenno..., se non che, non avendo Venezia nè legni da difendere la lunga costa, nè armi da mettere in mano a’ volonterosi, nè denaro, non dico da premiarli ma da sfamarli; e a pareggiare le spese del paese stesso con le rendite richiedendosi una risoluzione più difficile assai che la presa dell’arsenale; quel popolo disgraziato rimaneva preda, non solo dell’Austria, che ci avrebbe avventati a rapina i Croati e attizzata la guerra civile sospingendo contro i Latini i Greci, dall’Austria medesima già irritati, per convertirli con frode o con violenza, ma preda alla Russia distendente la sua rete di ferro su tutta la gente slava ; o avrebbe fatto correre sulle terre soggiacenti la lava montene-grina. Al quale servigio avrebbe dato opera abbondantemente il Vladika Petrovich, come già al tempo de’ Francesi suo zio, devastatore di Ragusa..., il quale aveva già tesa la mano al Jellacich, e parlato a’ Dalmati in favore dell’ Austria parole di fraternità e di minaccia. Ond’ io alle istigazioni reiteratemi risposi con breve invito a chi