364 739. P. G. Molmenti. Vecchie storie, con disegni di G. Favretto. — Venezia ed. Ongania, tip. Kirchmayr e Scozzi, 1882; in 16° di pag. 338. (S.A.F.) In tre di questi dodici quadri interviene il nome e la storia dell’ultimo doge di Venezia Lodovico Manin. Nello studio più importante del volume su Luigi Ballarmi, agente generale e procuratore di Andrea Dolfin ambasciatore a Parigi e a Vienna dal 1780 al 1792, sono riferite quattro lettere del Ballarmi stesso sulla elezione del doge e sulle munificenze che l’accompagnarono, mentre la dama moglie Elisabetta Grimani, non partecipa alle feste « e guarda di mal occhio d’essere dogaressa. » Le ultime due storie sono intitolate: « Due viglietti da visita » e «Le Memorie dell’ultimo doge di Venezia. » Nell’illustrare per la seconda volta (V. Fan-fulla della Domenica, 7 dicembre 1879, n. 21) il viglietto allegorico di Lodovico Manin (l’altro è di Giorgio Pisani), rappresentante un Adone ignudo dormente sotto una quercia con accanto due colombelle amoreggianti, il Molmenti conchiude che a tal doge conveniva tale emblema. Di che lo rimproverò il conte Lodovico Giovanni Manin, pronipote del doge, affermando che le Memorie autografe lasciate dal suo antenato potevano dimostrare la stoltezza delle accuse. Ma invece l’ultimo studio del volume dimostra il contrario, giacché le Memorie non valgono a reintegrare la fama del doge, benefico, gentile, mite uomo, ma pusillanime cittadino, benché sapesse che cosa la posterità avrebbe giudicato di lui. Il Molmenti, nel riportare moltissimi squarci delle Memorie, non solo giova al proprio intento, ma altresì alla storia, la quale, aggiungendo alle altre fonti queste delle Memorie, ne ritrae la dolorosa prova autentica che l’ex-doge, invece di chiudersi in un dignitoso silenzio, rese umile omaggio ai nuovi padroni francesi ed austriaci. Il Molmenti scrisse di Lodovico Manin anche nella sua Storia di Venezia nella vita privata ecc. Torino, Roux e Favaie, 1880. Finalmente, nella vecchia storia intitolata Una condanna capitale, pag. 135-148, è narrata la fine che Domenico Altan di S. Vito al Tagliamento, figlio naturale di Nicolusio di Porcia fece sul patibolo, a Venezia, il 6 novembre 1727, dopo essere stato due volte accusato, prima come baro di carte, poi come uccisore del marito di una sua amante. Fuggito dal carcere la prima volta, condannato in contumacia la seconda, ritornò mascherato in Venezia e si lasciò pigliare «come un topo alla schiaccia. » La narrazione è rifatta da una lettera di un prigioniero, trovata nell’archivio di Stato.