— 107 — Visane lentiscus vobis celeberrima, stratus Ad quam infelices lamentabatur amores 25 Grande decus nostros inter Maiuncus amantes? Arbore num ex illa capiti decerpta tulistis Serta, coronati qua fronde iacere queatis? Ignotis specubus reptantes antraque subtus Abdita lustrantes multo stillantia rore, 30 Obscenae quaenam vos foedavere volucres ? il filosofo Agesilao, per ordine di Settimio Severo (insularis poena) a Meleda, dove trovò conforto nella poesia, e liberato da Caracalla: tale punizione sarebbe stata inflitta per non essere Agesilao voluto andar incontro in segno di omaggio all’imperatore, reduce dalla spedizione contro i Parti. Questo racconto è tramandato dall’anonimo biografo di Oppiano (/?f'og ’Ojtmnvov), il quale (Oppiani, de pi-scibus etc., Venezia, Aldo, 1517, p. 3) tra altro scrive: à/ieb)(ìavm vf/g àfcavvPjg 'Ayrjaikaov, &g ài) qi/.oaóqoig ¿covra, xai xfvoóofyag xnvatpQovovvva, Xa?.ejvr)vag [2ejìf)Qog]ó ¡ìaaikevg, i-ciiujint-i' eig MfXivijv vi/nov vov ’Aóqìov (Lorenzo Lippi da Colle — ibid., p. 105 traduce: in Miletnm(l) Adriatici maris insulam). Si mostrano ancora a Porto Palazzo gli avanzi della casa (retiquiae domus) che avrebbe ospitato i due esuli. Non è tuttavia accertato se il luogo d’esilio di Oppiano debba credersi Meleda o Malta, nè se il palazzo sia del sec. 11 o di età più tarda, quantunque, a giudicare dalla paleografia, possano ritenersi del sec. II i due frammenti di iscrizione, rinvenuti qualche anno fa nel palazzo (Bullett. ardi, e Storia dalm., 1917-1919, p. 107-109). — nectere insidias, tendere retes, sinonimi, cfr. Prop. IV, 7, 37, nexisti retia (secondo Diomede e Prisciano), mentre i codd. hanno tendisti (L. Muller) ; retia tendile silvis, Ovid. Met. IV, 513. Il Resti «amò la caccia, la pesca, il letto, la mensa (Tommaseo) — ponto, sjlvis, abl. senza prep. (cfr. v. 20). — 24-26. grande decus (Hor. O. II, 17, 4), complosio syllabarum, attenuata dall’ allitterazione col d, di cui il Resti, come Virgilio e Orazio, a volte si compiace. Grande decus qui suona un po’ ironico. - Maruncus, Marunko si intitola un lavoro poetico (1706) serbo-croato di Ignazio Giorgi (1675-1736), monaco benedettino, autore anche di parecchie opere pregevoli latine e italiane. «Impareggiabile poemetto bernesco è giudicato dall’ Appendini (Notizie, Ragusa, II, 1803, p. 245) il «Marunko»: vi si canta l’amore non corrisposto di questo giovine per Pavica. Gli ottonari del Giorgi, composti nella quiete melitense, sono ancor oggi ricordati a memoria da molti isolani, non solo per la fluidità arguta del verso, bensì per il colore locale del contenuto e della parlata (Krile, p. 5). L’esametro 25 (cinque spondei) e la cadenza lamentosa dei tre spondei vicini nel v. 26, disegnano la gravità comica dello sfortunato amatore. — 27-28. decerpta serta, coronati qua fronde, Lucr. I, 927-928, iuvalque novos decerpere flores, insegnemque meo capiti petere inde coronam; cfr. Hor. O. I, 7, 7. Si osservi l’assonanza: decerpta, serta. La domanda è rivolta agli amici con simulata ingenuità e non senza un’ oncia di malizia. 29-31. reptantes, si accede a quelle caverne carsiche con la reptatio per manus et genua — multo stillantia rore, accenna, con classica eleganza di frase, alle gocce d’acqua stillante per le fessure (formazioni stalattitiche e stalagmitiche) delle caverne di Meleda; forse ricorda in particolare la Spelonca piccola. Per la costruz.