— 271 — resto, nulla sappiamo della patria della sua donna, come nulla sembra saperne il poeta stesso, a giudicare dai versi (R., p. 180 A): Felice mare, avventurosa riva Che la produsse! o conca alma gentile, Che n’arricchisti sì, qual tu ti sia! Non ha quindi torto il K. quando suppone che il Monaldi, il quale mai prese moglie, non abbia neppure mai veramente amato, perchè « nessuna sua poesia è tale, da doversi ritenere frutto di un amore reale e di un sincero sentimento: ognuna di esse si può considerare prima frutto del suo cervello che del suo cuore » (p. 99). Indubbiamente c’è più sincerità, ed anche una certa profondità di sentimento, nei sonetti composti per la morte di congiunti, di amici, di letterati, tra cui figurano il Caro, l’Amalteo, il Darsa, il Bobaii, Giovanni Gradi. Non mancano neppure sonetti che ci mostrano come anche il Monaldi fosse in relazione con parecchi poeti d’Italia e della Dalmazia, col Varchi, con Luca Sorgo, col Boccabianca, col Menze, con Giulia Bona, con Niccolò Primi e con Mario Caboga, il noto teologo che prese decisamente posizione contro le dottrine luterane, quando esse, intorno al 1570, cominciarono a farsi sentire nell’ arcivescovato di Ragusa (J. CH. ENGEL, Geschichte des Freystaates Ragusa, Wieil, Doli, 1807, pp. 224-25). S’ è visto come il Pasquali cercasse rifugio dalle patite disillusioni amorose nella fede, e come quindi ciò desse origine ad alcune rime di carattere religioso ed ascetico, le quali non mancano neppure nel Bobaii ; però importanza maggiore, prescindendo completamente dal loro valore artistico che resta fuori di discussione, trattandosi di mere esercitazioni rettoriche, hanno i due componimenti del Monaldi che chiudono il volume. Il primo è una parafrasi del salmo XXXI (non del Vangelo, come erroneamente afferma il K. a pagina 101), che comincia « Beati quorum remissae sunt iniquitates, et quorum teda sunt peccata »; il secondo una traduzione libera o parafrasi dell’ ode oraziana (III, 24) « Intactis opulentior > ; e il prof. K., latinista, doveva, ci pare, farlo rilevare. Che non se ne sia avveduto ? Questi componimenti dimostrano come subito si facesse sentire in Dalmazia l’influenza di quella copiosa letteratura in verso e in prosa che, al tempo della Controriforma, fu determinata, in parte, dal ravvivato sentimento religioso, ma soprattutto, dall’efficacia direttamente esercitata sulla cultura dai Gesuiti, i quali già nel 1560 vennero a Ragusa e vi iniziarono il loro insegnamento (J. Ch. Engel, op. cit., p. 218). E cosi troviamo il Monaldi, in gara col Borghesi, col Benamati, con Celio Magno, Francesco di Terranova, Ottavio Tronsarelli, lasciarsi inspirare in una lunga canzone (le strofe sono di sedici versi, non di varia lunghezza, come crede il K., ma tutti endecasillabi, meno l’ottavo che è sempre un settenario) dall’avvenimento che commosse i cuori e le fantasie di tutto il mondo cristiano, dalla vittoria che a Lepanto le forze riunite della cristianità riuscirono a riportare, auspice il pontefice Pio V, sotto il comando di Don Giovanni d’ Austria, ma per merito specialmente della flotta veneziana comandata dal Veniero, sui Turchi. Questa canzone, che il K. non esita a giudicare la miglior poesia del Nostro, sebbene anche qui vi traspaiano lo sforzo e Io stento, è importante perchè sta a dimostrare che è più un luogo comune, una frase fatta, che una realtà storica, l’asserito odio da parte di Ragusa contro Venezia. Infatti se la cosa fosse stata nei termini che abitualmente si è soliti di prospettare, il Monaldi non