— 253 — clusione, che parla certo assai poco a favore dell’esoticità della cultura italiana in Dalmazia da lui sostenuta. Se egli si fosse dato la pena di studiare un po’ più da vicino l’influenza esercitata dalla lirica italiana in Europa, e specialmente in Francia e in Spagna, che per essere due paesi d’idioma neolatino erano pur maggiormente disposti a gustarla e a lasciarsene quindi fecondare, avrebbe potuto constatare il modo profondamente diverso con cui essa si comportò colà, dove era realmente straniera. Dove sono i canzonieri in lingua italiana fioriti in Francia o in Spagna ? Qualche rara poesia composta in italiano da, mettiamo, un de Tarpia 0 da un Carvajal, per pura esercitazione rettorica, che cosa può significare? Non è certamente in questo che bisogna cercare i vantaggi che alla poesia d’oltralpe vennero dalla nostra lirica, come tali vantaggi non sono nemmeno da cercare nei pensieri e negli affetti eh’ essa vi infuse, ma nell’ elocuzione e nello stile, nell’ aver essa insegnato a Francesi ed a Spagnoli a tornir la frase, a dar salda compagine ai periodi ed armonia al verso, a cercare con ogni studio la classica levigatezza. Nè diversamente procedettero le cose per l’Inghilterra, sulla cui letteratura pure la nostra lirica fece sentire la sua efficacia, ma limitata anche qui, per ciò che riguarda 1 reali vantaggi che quella ne ricavò, alla pura forma. Quando nel secolo successivo, il Milton, che pur possedeva una notevole cognizione non solo delle norme grammaticali della nostra lingua, ma della nostra metrica e delle eleganze proprie alla nostra poesia, la quale è risaputo quali profonde tracce lasciò poi in tutta la sua opera, quando il Milton si accinse a poetare in italiano, rimase imbarazzato, rivelando « una grande debolezza d’espressione, un’esitazione nell’uso della lingua, una mancanza di musicalità, che provano come pure un nobile artefice balbetti e si confonda quando viene ad adoperare un idioma novello ;> (F. Oliviero, Studi di letteratura inglese. Bari, Laterza, 1913, p. 11) Tutt’altra cosa invece riscontriamo nei poeti della Dalmazia, dei quali non è affatto da meravigliarsi se nei loro versi raggiunsero una perfezione di forma tale, che nulla ha da invidiare a quanto di meglio per eleganza e levigatezza formale si produsse altrove in Italia: per essere in Dalmazia la cultura e la lingua italiana di casa, essi hanno di questa la conoscenza profonda, vasta, sicura, precisa, che è una delle caratteristiche del secolo in cui più vivacemente si disputò intorno alle varie teorie linguistiche. Che al fervore di studi sulla lingua italiana non sia mancata un'attiva e assidua partecipazione dei Dalmati, sta a dimostrarlo anche il fatto che in questo secolo due di essi, Giovanni Nicheo e Francesco Patrizio, furono membri dell’ Accademia della Crusca (A. Tamaro, La Vénétie Julienne et la Dalmatie, Roma, Imprimerle du Senat, 1919, III, p. 262). A proposito di ciò mette conto di ricordare un sonetto del Bobali al Mo-naldi (Rime cit., p. 135), che mostra come anche da noi si prendesse interesse e gusto alle più sottili disquisizioni linguistiche, conformemente a quanto si faceva allora dappertutto in Italia. Il Bobali racconta al Monaldi come fosse stato ripreso da due suoi amici, patrizi evidentemente e dotti, che di gentile an altro ancor, che '1 manto, per aver egli usato in una poesia lo suo anziché il suo. Invano il poeta si difende allegando, dal Petrarca e dal Bembo, esempi come lo mio, lo cor, lo quale-, essi non si lasciano convincere, perchè egli non può portare alcun esempio di lo suo. Poche notizie ci dà il K. sulla vita del Pasquali oltre a quelle, assai scarse, che si possono leggere già nell’Appendini (Fr. M. Appendini, Memorie spettanti ad alcuni illustri uomini di Cattaro, Ragusa, Martecchini, 1811, pgg. 29-37).