— 189 — omnium officina, mundi deliciae, iustitiam semper favens et religionem?...». E basta quanto al fiele dell’a. Veniamo ai suoi errori. Non è vero che il conte prendesse nelle sue mani l’amministrazione dei beni comunali e quindi la cassa comunale. Le rendite del comune furono, all’atto della dedizione del 1409, rassegnate a Venezia dagli arbesani stessi, perchè il comune, rovinato economicamente dallo sgoverno ungherese, non era in grado di provvedere alle spese dell’amministrazione (Inchiostri e GALZIGNA, Statuto di Arbe, Trieste, 1901, pag. 107). L’autore non distingue tra la «camera del comune» che aveva un camerlengo eletto dalla comunità, anzi dal conte, e la «camera fiscale di S. Marco», il camerlengo della quale veniva da Venezia. Non è vero che i «cavalieri» fossero soldati del presidio di Arbe; «cavaliere» nella terminologia giudiziaria veneta vale quanto «fante» nell’odierno dialetto di Arbe. Non è vero quello che l’a. (pag. 120-121) dice dei pretesi privilegi concessi alla nobiltà in seguito al suo scontento. I capitoli della commissione Steno, che abbiamo citato, valsero dal 1409 fino alla caduta della Repubblica. pag. 120-121. La Comunità ebbe sempre il diritto di inviare a Venezia ambasciatori. Non è vero che gli «scontri» alla camera si eleggessero dalla comunità, ma dal conte. pag. 122. Non è vero che il «collegio degli otto nobili» fosse istituito (ustanovljen) per esercitare « un severo controllo sul conte, sulla sua amministrazione e sulla sua opera, come pure sull’opera dei suoi dipendenti» ma semplicemente «a terminar le cose della comunità». Quanto al «collegio dei dieci popolari» ne ignoriamo l’esistenza; non si tratta dei «decem populares deputati ad excubias nocturnas»? Non è vero che Venezia separasse il potere amministrativo dal militare. I «castellani», «colonnelli», ecc. dipendevano dal conte, che, è opportuno notarlo, ebbe sempre in Arbe il titolo anche di capitano. Quanto alla galera, non è vero che la comunità di Arbe la «mantenesse» (uzdrzava); la comunità pensava unicamente all’elezione del sopracomito e al reclutamento degli uomini da remo. A pagarli pensava poi la Repubblica. E non doveva trattarsi di salarii da burla se, p. es., quel Girolamo Cernotta, «eques» che con la galera arbesana, fu, in sul principio del cinquecento, «ad debelationem civitatis Fluminis», « lucravit ducatos mille dum in mare in sopracomitatu triremis ad servitium Illustrissimi Ducalis Dominii Venetiarum se exercuit» (Suo testamento in Carte Nimira, b. 1, all’Archivio di Stato di Zara). — Ed ora eccoci ad affrontare una questione piuttosto spinosa. Dice l’autore che Venezia, per i suoi fini politici, fomentò ancor più la inimicizia che già esisteva tra nobili e popolari. L’asserzione non è peculiare dell’a,: la si può leggere