- 241 — le cui opere godettero una diffusione straordinaria per quel tempo e che entro la cornice di una Rinascita paganeggiante resterebbero sempre un anacronismo e un enigma pressoché insolubile. Lo Zabughin già negli anni precedenti aveva dato prova di conoscere ed amare la letteratura d%lla Dalmazia italiana pubblicando nel numero speciale del Nuovo Convito dedicato alla Dalmazia (1919) un interessante articolo su un altro umanista di Ragusa, Elio Lampridio Cerva, che del Bona fu amico e probabilmente parente. E del Bona aveva trattato abbastanza ampiamente nella poderosa opera su Vergi/io nel Rinascimento Italiano (voi. II, pag. 187-190), studiando specialmente le impronte del Mantovano nei due poemi del Nostro; sul Bona, come pure sul Cerva, prometteva studi più ampi e un’edizione delle loro poesie. Ma la morte prematura evidentemente non gli permise di condurre a termine questi lavori dalmatici. Alla mancanza di queste opere per il Bona suppliscono le poche pagine della Storia del Rinascimento Cristiano (236-238), in cui trattando nel cap. Sacre Camene dell’epica religiosa l’autore disegnò con mano maestra un breve profilo del Ragusino. Sono piuttosto rapidi accenni e semplici tracce, seguendo le quali si potrebbe colorire il quadro completo della sua opera letteraria e che ci lasciano vivo il desiderio degli studi promessi su questo argomento. Ma anche da questa sommaria trattazione evidenti risultano le relazioni dei poemi del Nostro con quelli dei suoi predecessori e contemporanei, la composizione artistica di essi e il posto che occupano nello svolgimento della poesia cristiana del Cinquecento in Italia. Mentre nel volume su Vergilio nel Rinascimento Italiano (pag. 187) il Bona veniva annoverato tra gli epigoni minori del Sannazaro, nell'opera postuma egli è presentato subito da principio come « uno dei maggiori e meno conosciuti poeti del Rinascimento », e la sua opera è messa nella luce che merita accanto ai capolavori di Q. B. Spagnoli e del Sannazaro. Nel De raptu Cerberi (questo è il titolo primitivo del poemetto), opera giovanile del Nostro in 1006 esametri, divisa in tre libri, di fronte alle ardite innovazioni di Battista Mantovano che nel trattare epicamente argomenti sacri adoperò per il mondo pagano e classico il sistema dei « parallelismi » e dei « contrasti », la tecnica artistica del Bona secondo lo Zabughin segna pur essa un ritorno alla concezione medievale. Il racconto della calata di Ercole agli Inferi per rapire Cerbero si palesa specialmente verso la fine come allegoria o meglio prefigura della discesa di Cristo nel Limbo. Procedimento questo caro ai poeti dell’età di mezzo, che ricorda le pitture delle catacombe; ma il critico lo spiega benissimo pensando al paese e all’ambiente donde il Nostro proveniva. Ammaliato dalla civiltà classica, viva e intensamente sentita (e in Dalmazia, aggiungiamo noi, forse più che altrove per il contrasto tra le due stirpi che l’abitavano), il poeta « figlio di un’italica provincia, ove nell’età del pieno rigoglio delle signorie assolute perdurava il reggimento dei Comuni guelfi », ove per ragioni speciali « il Medio Evo sopravviveva più tenacemente che altrove >, animato da un sincero sentimento religioso, fonde nel suo poemetto due mondi e due civiltà. 11 viaggio di Ercole è bensì modellato su quello di Enea, l’Averno coi suoi mostri è pur sempre quello di Vergilio, gli episodi di Ila e Piritoo sono calcati maestrevolmente su quelli del VI dell’Eneide, il tutto non senza un sentore di Ovidio, Claudiano e persino di Dante; ma la lotta finale di Ercole coi diavoli capitanati dalla Morte è una «de-monomachia nettamente ispirata al teatro sacro», La forma è, beninteso, di ver- J§