— 269 — sostenuto da F. Jelasic ( Miho Monaldi, Irene iliti o Ijepoti» *), Zagabria, 1904, p. 12); è merito del K. aver chiarito meglio questo punto, osservando che se il Monaldi era già noto come elegante verseggiatore mentre era ancora in vita Benedetto Varchi, prima quindi del 1565, come risulta dai sonetti che si scambiarono, almeno a una diecina d'anni prima del 1550 bisognava porre la data della sua nascita (p. 63). Uscito dalla famiglia Gabrieli, trasferitasi da Prato a Ragusa nei primi decenni del quattrocento, quando vi si stabilì pure la famiglia Monaldi, oriunda da Pesaro, di questa assunse egli insieme al fratello Bartolomeo il nome per affetto grande, che portavano ad un loro parente di detta casa dei Monaldi », Come apprendiamo da un elenco dell’ Ordine dei cittadini ragusei detti volgarmente Antonini, a cui appartennero le due famiglie. Le sue rime, del cui scarso valore poetico abbiamo detto, e che neppure pel numero si possono paragonare a quelle degli altri due poeti trattatti dal K., hanno avuto in compenso l’onore di ben tre edizioni. Una prima edizione di tutte le sue opere fu fatta per cura dei figli della sorella di lui Decia a Venezia, nella stamperia del Bariletta passata durante l’anno in proprietà di Altobello Salicato, nel 1599, setf anni dopo la sua morte; nel 1604 se ne fece una seconda, a soli cinque anni di distanza, sempre per cura dei nipoti; Antonio Occhi poi ne ristampò a Ragusa, come già dicemmo, insieme con quelle del Bobali, le poesie italiane soltanto, col titolo Rime di M. Michele Monaldi cittadino Raguseo », che è l’edizione dalla quale .sono fatte le nostre citazioni. La maggior parte di queste poesie sono sonetti, di cui sei d’altri autori; ci sono poi canzoni, madrigali, un’ « ottava rima», una sestina, e una lunga epistola poetica in endecasillabi sciolti. In essa Lino scrive a Ipermestra sua sposa, per ringraziarla di avergli salvata la vita, incorrendo nell’ ira implacabile del « fiero padre » suo, Quell’ empia notte, che per poco il lume Del viver mio sì crudelmente estinse; Ed a quarantanove miei fratelli Racchiuse gli occhi in sempiterno orrore, (R., p. 221) e annunziarle che, aiutato dal «fior di Grecia », viene a liberarla dalla prigionia in cui è tenuta. Questo poemetto, chiamiamolo cosi, il quale si riallaccia al noto episodio delle Danaidi cantato da Ovidio nelle sue Eroidi (XIV, Hypermnestra), non si raccomanda certo per particolari bellezze poetiche, o per il modo con cui è condotta l’azione, che è tutta narrata, o perchè al poeta sia riuscito di ricavare da questa favola mitologica un carattere ben disegnato, chè sono in troppo stridente contrasto gli arditi propositi di Lino nell’atto in cui si accinge In su un alto destriero, e dell’ ostile Sangue bagnato, a tutti mostrar, come Si dee combatter per 1’ amata cosa, con la sua fuga, poco prima da lui ricordata, nella truce notte della strage, quando *) « Michele Monaldi, Irene, ossia della bellezza »,