— 179 — zione che, per qualche rispetto, hanno anche gli scritti del più umile e disprezzato dilettante. Tuttavia, per essere questa l’unica monografia, alla quale — dopo quella dello SCHLEYER (Lipsia, 1914), nata e morta senza che quasi nessuno si accorgesse — i curiosi di cose arbesane saranno costretti a ricorrere per essere informati del passato di quel glorioso comune, e perchè riteniamo nostro debito non permettere che circolino impuniti errori e panzane intorno alla storia dalmata, ci siamo decisi, nostro mal grado, a tórre in mano la penna e parlarne. Delle tre parti onde la monografia si compone, dichiariamo di non poter nè saper occuparci della prima (pag. 5-46), nella quale con un enciclopedismo che invidiamo all’a., egli si occupa di geografia, geologia, clima, flora, fauna, oceanografia, geografia antropica, agricoltura, piante industriali, allevamento di bestiame, apicoltura, ecc. ecc. Della terza parte, che vorrebbe essere una specie di guida artistica della città (pag. 147-182), rileveremo qua e là soltanto gli errori più madornali e le asserzioni più gratuite. A lungo ci soffermeremo invece sulla parte storica, che è anche la più ampia (occupa le pag. 47-146) e alla quale l’a. stesso pare dia la maggior importanza. L’a. l’ha intitolata «sguardo» (pregled). Ci si attenderebbe dunque una specie di sintesi che tenesse anzitutto conto delle vicende e dello sviluppo storico del comune. Invece ci si trova dinanzi a una congerie di notizie le più disparate, non legate da nessun filo nè logico nè ideologico, accattate quasi tutte alla tradizione o a fonti sommamente infide, la più parte assolutamente estranee alla storia del comune, molte svisate per ignoranza e impreparazione, moltissime falsificate con la piena coscienza di compiere una falsificazione. L’a. s’è messo a scrivere con il fine preciso di scrivere la storia di un comune croato. Di qui i suoi sforzi sovrumani per trascinare a forza dentro l’orbita della storia croata, quella del comune di Arbe, che invece brilla di luce talmente italiana, da non temere confronti con il passato di qualsiasi altro comune marinaro d’Italia. Avviene cosi che l’a. debba ignorare interi secoli di storia: il millecento per lui quasi non esiste; non esiste affatto il duecento; il trecento nella sua prima metà, pur così piena di fascino, è sorvolato con una disinvoltura assai allegra. E per riempire il vuoto che, trattando in questa maniera la storia, veniva necessariamente a formarsi, egli ricorre a un ridicolo e puerile espediente: trasporta di sana pianta da storie croate gli avvenimenti di quei secoli e li applica alla storia arbe-sana. Entrino o non entrino ve li caccia a forza. Parla così di re, di reucci, di bani, di governatori che mai nemmeno di lontano videro le mura di Arbe o, se le videro, fu per assaggiare le picche del popolo levato in armi per ributtarli. Tutto ciò che possa sapere di italiano egli