283 e la sala; empie, non ¡stordisce, buon per lai e per noi, il teatro. La romanza del soprano non è d’ egual pregio ; la cantilena, o che ci sembra, è comune, e la Bendazzi, con quel portento di voce, più che in essa, si solleva, spazia, nel gran concerto. L’ atto secondo, o meglio, la seconda giornata, incomincia con una canzone a ballo, cantata, un po’ per sè, dall’ Argo,, e accompagnata da un coro di donne, da una maniera di sistri ne’ ritornelli, e intrecciata di danze. L’ effetto n’ è graziosissimo. Seguono un duetto tra basso e tenore, 1’ Echeverría e il Negrini ; poi un terzetto tra essi e il soprano, la Bendazzi. Tutti e due questi luoghi son belli per non so quale vaghezza e novità di cantilene, per la passionata espressione della musica, che assai bene risponde alla situazione ed alla parola, e che il Negrini da un lato, con quel suo fare, quasi direi risoluto, naturalmente risentito, col toccantissimo accento ; dall’ altro, la Bendazzi, con 1’ energia della voce, massime nella cabaletta, assai lavorata, fanno anche più risaltare. Nulla pareggia la forza di lei in quel passo della cadenza: Donna son io, ma impavido Al par d' ogni altro ho il cor.