192 Intorno alle uniformi lacei’e, altre armi spezzate. E finalmente sono sulla vetta. Il grande Tarabosch culmina in una maceria, la maceria di una trincea estrema sulla quale — come allora — sibila il vento che viene dal Murician e s’incrocia con quello che spira da Gruda. È una vetta deserta, battuta dal vento come da un turbine senza fine. Ma il terreno mi pare più rossiccio del solito terreno formato di detriti bianchi di pietra. Che è? Mi chino, e con una frequenza che non sarebbe credibile scorgo frammisti alle pietre bianche i frammenti degli shrapnells montenegrini che l’acqua e il sole hanno ormai reso di colore arsiccio. È una gragnuola di metallo che per sette mesi si è abbattuta quassù ed ha trasformato la cima bianca e petrosa in un alterno terriccio di sassi e di proiettili: frammenti di proiettili da 75 é da 149 esplosi, proiettili inesplosi, bombe a mano, minuscole pallottole di fucile, tutta la mitraglia di cui fu capace l’offesa montenegrina contro questo estremo baluardo ottomano. E sulla maceria estrema dove non sono più cannoni nè segni di vita, ma solo queste impronte della morte, un montenegrino giovinetto con l’arme imbracciata veglia il possesso ideale della sua piccola patria. È il primo essere vivo che ho trovato salendo dal ponte della Bojana.