L’agonim turca al campo di Fieri Iti 5 ve il signore del luogo ci ha offerto in una fantasmagoria degna delle Mille e una notte un banchetto turco, e il riposo nelle sue sale coperte di preziosissimi tappeti: riposo assistito da due servi che vegliavano accanto a noi. Nella dolce casa di Omer Pascià si dorme: fuori il temporale infuria, lacera l’aria con baleni d’incendio. E l’armata del Vadar nelle sue tende, nelle sue capanne di sterpi, attende l’ora di uscire dall’Albania, in questa notte di uragano. Nel canale di Otranto, maggio 1918. Il colonnello Rescid Galib Bey è di nuovo con noi, a bordo del vapore che condurrà lui verso l’Italia e che a noi servirà per tentare di raggiungere Scutari per altra via. Ormai egli è divenuto un amico; ha smesso la sua fiera uniforme militare e vestito poveri panni borghesi. Ed ha dei momenti di gioia (il primo riso che abbia scorto in questi giorni sul volto di un turco) al pensiero dell’Italia, della libertà, del sole, delle donne, di tutto quello che dopo otto mesi di agonia morale rivedrà. «Ah, dormire, dormire per ventiquattr’ ore e dimenticare tutto — egli esclama — e rinascere di nuovo. Potrò?» E si preme la testa e chiude gli occhi. «La guerra? Chi non l’ha vista così, 11011 può dire di conoscerla. Che cos’è