Una virtù sfortunata (*). Chiamatemi tristo, scellerato, perverso j mat deh ! non mi date, del buono. Io odio, detesto quel titolo ; nell’ invincibile orror eh’ e’ m’ispira^ mi sentirei capace di commettere fino a una colpa, per togliere altrui il diritto d’ appiccarmi quel-l’infelice, pecorino sonaglio. Buono! come! tutti i morti nell’ epitaffio ! come tutti i Carli e i Luigi che perderono il trono ! come l’agnello stupido,, che tace quando è tonduto ? Buono. ! che inalzato, alla terza potenza, vai quanto minchione l Ah no. ! gridatemi mostro, rosso, assassino ; imma^ ginate qual altro nome è più odioso,, pagano ; ma toglietemene questo, di cui nessuno è, più grave,, più disastroso* a, portarsi,, Voglio piuttosto, esser lupo che, pecora ; la pecora, che quando non è mangiata dal lupo,, mu»r pel beccaio ! La bontà non è scala, a niente nel mondo non dà nè considerazione,, nè fortuna, nè fama. (') Gazzetta del 9 marzo 1850.