A ROMA suo padre lo chiamò a se per dirgli che a-vrebbe proseguito gli studi nella capitale dell’impero, si mise a cantare dalla gioia... Partì che la Narenta s era fatta gonfia e borbottona per le prime piogge ; il mare flagellava gli isolotti e la bora gonfiava, fino a romperli, i bianchi seni delle vele. Avea la sua anima di adolescente tutta piena di voci, come un bosco a primavera, e la fantasia luminosa come una marina. A capire Roma, non basta conoscerne la storia : occorre possedere il senso del grande, e dell’eterno. V’entrò da porta Salaria, e, preso dentro la cerchia delle massiccie mura au-reliane, restò come paralizzato davanti alla maestà dell’Urbe. Dalla bocca scialba di Orbilio avea appreso come la capitale fosse passata dal leggendario solco di Romolo ai fastigi dell’impero e ora tutta quella storia gli si spiegava davanti agli occhi, narrata con parole fatte di templi, di teatri, di fori, d’archi e di colonne. Dio comincia a seminargli il cuore di romanità. Un editto del 12 marzo 370, emanato a 47