NEL CENOBIO D’AQUILEIA che Tertulliano, con frase un po’ carnale, chiamava «la pinguedine di Dio». Uscendo aveva l’anima tutta luce e stille, come se si fosse tuffato in un freschissimo mare di luce... Il cenobio non ha le porte sprangate come un cellulare e, quando il vescovo parla al popolo, non lo tengono neppure le catene. Scappa, si pianta davanti alla sua cattedra e si beve l’omelia, con lo stesso gusto con cui un giorno beveva le tazze di Bordeaux. Non si saziava di visitare la grande basilica fatta costruire dal vescovo Teodoro (sec. IV), e s’incantava davanti a quel pavimento, capolavoro dell’arte musiva, in confronto del quale gli parevano poca cosa perfino i ritratti della palestra annessa alle terme. A quando a quando visitava la celebre zecca imperiale, fondata da Diocleziano; faceva una capatina agli stabilimenti per la lavorazione della porpora e sostava volentieri a sgranare gli occhi davanti alle vetrine colme di piccoli capolavori in ambra. Gerolamo reca con sè la sensibilità d’un artista raffinato. Ma ama specialmente le passeggiate al fresco della sera. 83