— fio — suoi figli, come una povera creatura battuta. Io non perdono a chi le fece male. Io voglio che la nostra mamma possa godere di noi più bravi degli altri. — Quando sarai guarita verrai un mese con me a Firenze, vuoi ? C’è le colline e gli ulivi, e staremo in pace. Ora son passati tre mesi, poi passa ancora uno, e dopo facciamo una gran festa. Io butto il cappello in aria: mamma è guarita. Vuoi ? Ella tace rabbrividendo di gioia. E io le parlo e le racconto tante cose buone, ma sono stanco di questa triste camera oscura, con poca aria, con l’orologio che batte il suo tempo. Vorrei rifugiarmi al mio tavolino e lavorare, scrivere un’allegra poesia, uscire in campagna ed esser solo con il sole e l’aria. Io avrei bisogno di prosperità e contentezza. Sono quasi irritato contro il suo male, contro l’oscurità che è calata da tanti anni nella nostra casa. Si vive paurosi di svegliare negli altri certe cose che sono sempre presenti dentro di noi; si vive a bassa voce, guardandoci di sfuggita in viso dopo una risata. Molti giorni si imbocca la minestra e la carne senza dir parola, sforzandoci a interessarci dei piccoli che raccontano della scuola. Si vive così da molti anni. E la mamma guarda i nostri occhi che s’abbassano come in colpa, e non può far niente per i suoi figlioli. Ella ci bacia il capo,, e ci chiede scusa in silenzio. Un giorno metteva ad asciugare alcuni panni alla stufa e piangeva. Io le chiesi: — Mamma cos’hai? — Le chiesi ancora — essa piangeva e negava, cercava di trattenere lo spasimo, ed era stanca: — che hai mamma ? per-