— li- li nostro giardino era pieno d’alberi. C’era un ippocastano rosso con due rami a forca die per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo più levare ci lasciavo la scarpa. Dall’ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di passeri. C’era una specie di abete, vecchissimo, su cui s’arrampicava una glicinia grossa come un serjtente boa, rugosa, scannellata, torta, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a ’sconderse. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo di lassù il passo cauto dello stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. II fiore del glicine ha un sapore dolciastro-ama.ro-gnolo, strano, di foglie di pesco e un poco come d’etere. C’erano anche molti alberi fruttiferi, aiuoli, ranglò, ficaie, specialmente. Appena i fiori perdevano i petali e i piccioli ingrossavano, io ero lassù a gustarli, non ancora acerbi. Acerbi sono buoni! Il guscio del nocciolo è ancora tenero, come latte rappreso, e dentro c’è un po’ d’acqua limpidissima e ciucciosa. Poi, dopo qualche giorno, quando la mamma è uscita di nuovo per andare dalla zia, essa diventa una gomma gelatinosa dolce a sorbirsi con la punta della lingua. Ma la carne coia’è buona, così aspra ! Prima il dente ha paura di toccarla, e la strizza guardingo, mentre la lingua riccamente la inumidisce e assapora la linfa delle piccole punture. Poi la si addenta. Le gengive bruciano, i denti si stringono l’uno addosso dell’altro, si fanno scabri e ruvidi come pietre, e tutta la bocca diventa una ricca acqua.