- 14 — La nostra casa era bella e patriarcale. L’atrio era come un grande tempio, arioso, intorno a cui giravan le scale con le balaustre bianche, incorniciate di legno lustro, giallobruno. D’inverno il sole entrando per i fine-stroni cercava di scaldare i cacti sgonfi di zio Daghelon-dai. Era la casa del nonno in cui abitavano i molti figliuoli ilei nonno, e i molti nipoti. La domenica e le feste il nonno sedeva a capo della tavola parentale, laggiù in fondo. Era alto di torace con un viso largo e indulgente e una gran barba bianchissima. Guardava contento i suoi figliuoli e le loro donne. Quanti cari parenti erano seduti intorno alla tavola nella gran sala domenicale! Tutti erano seduti al loro posto, e quando altri venivano, si aggiungeva un’asse alla tavola e si prendeva una più lunga tovaglia daU’arniadio. Perchè i nostri parenti erano molti, e arrivavano da Zagabria, da Padova, daH’America-e portavano baicoli e giocattoli. C’era zio Boto, intorno a quella tavola, che faceva quadri e ci contava le avventili« ili Saturnino Farandola, e zia Tilde con due grandi occhi dolci, color mare, e Brancolina, cuginetta,* che stava sempre con mio fratello e io cercavo rabbioso di sapere i loro segreti, e zio Daghelondai che ci diceva sempre con voce burbera: — Turco alla predica ! Daghelondai ! —, e io ridevo e mio fratello saltava spiritato pestando i piedi, e zio Guido, e zio Feli-ciano, e zia Mima, e Mario e Bruno, la nonna, zia Bice, papà, Toci, mamma. E zia Ciuta, prosperosa e matronale. Aveva uno sguardo benefico, e le cose diventavan facili e semplici com’ella ne parlava.