336 Questo sarà stato lo spuntino; al quale saranno seguiti altri lavori ed altri piaceri; come ad esempio quello della caccia ai mazori ed alle sarsegne, altra volta così interessante per tutti i veneziani, ed oggi rimasta privilegio di pochi ('). Son ben lontani i tempi, in cui i nostri patrizi si recavano in valle sulle fisolare lunghe e strette, vogate da sei od otto barcaiuoli, vestiti di verde, o di color berrettino. Allora, anche d’inverno, nei pomeriggi, le fondamenta della Giudecca erano affollate di curiosi, per vedere quali fisolare arrivassero maggiormente colme di preda; che talvolta il cacciatore per ostentazione, inchiodava ed esponeva su d’un’asse sulla facciata della propria casa. A certe caccie prendeva parte ufficiale la Signoria coi più nobili ospiti, e della preda il doge faceva regali, specialmente ai membri del Gran Consiglio; anzi da quest’uso si deriva la creazione dell’ose/a, d’un quarto di ducato, data in cambio dei soliti cinque uccelli marini. (1512) (=). Vi erano maestri grandi nell’arte del cacciare; e fra gli scolari troviamo anche dei principi, come ad esempio il principe elettorale di Polonia, diventato poi re, che nel 1716 prese apposite lezioni, per la caccia in valle, da Gian Battista Minozzi, sacrestano delle monache in Santa Croce alla Giudecca, e gran cacciatore agli occhi di Dio, (*) 1 cani da vale, o cani di pelo forte, erano una razza particolare, avvezza all’acqua, ed a seguitar ben da lungi le anitre ferite, al disopra del ghiaccio, come sotto di esso. —li schioppi che si usavano, per la caccia detta di borida, erano a due canne : ve n’erano ad una canna, lunghi oltre la statura di un uomo (caccia in valle). Si usavano poi lo schioppone e lo schiopponcino. (2) A Natale il doge regalava ai numerosi gentiluomini delle varie gerarchie ed istituzioni repubblicane cinque anatre selvatiche (mazorini). Esso doge aveva particolari diritti di caccia e di pesca nel tratto delle lagune e delle valli che da Torcello, si estende fino a Marano. La dispensa delle migliaia di mazori necessari, era fatta in modo da non destar gelosie ; e gli incaricati sceglievano con cura le grasse anitre selvatiche e le magre, in modo che un dono equivalesse all'altro. Da ciò è nato un proverbio, che si udiva spesso, fino a poco tempo fa, in bocca dei nostri polameri (e stanno scomparendo essi pure) : « un grasso e un magro, come i oseli de Maran ». E poiché i settemila mazori che, col crescere del numero dei beneficiati, erano necessari per tali doni, era difficile trovarli, fin dal 1361 il doge Lorenzo Celsi fu autorizzato dal Gran Consiglio, a sostituire ai mazori che mancassero, una certa somma di denaro. Nel 1521, i beneficiati erano saliti a ben 9.000. Fu allora che, in luogo dei mazori, si pensò di coniare e distribuire le osele, e la nobiltà si radunava a riceverle in Palazzo ducale il 4 dicembre, giorno di S. Barbara. Sulle varie forme e figure delle osele, di cui vi è una completa collezione al Civico Museo, vedi anche quanto ha scritto un noto giornalista, ospite per lunghi anni di Venezia, Horatio Brown, nel suo libro Life of thè Lagoons, nel quale è simpaticamente ricordata più volte la nostra Giudecca.