236 nell’ avvenir di dirlo a voi e farlo dir alla Signoria, e se ben avessimo taciuto e tacessimo, doveria parlar per noi la pru-denzia di quelli sapientissimi senatori e la occasion dei tempi. Non si può più sopportar, magnifico ambasciator, quella indiavolata anima di Carlo in quel sporco corpo nel qual se ben non sono le forze è però rimasta viva la malignita. Già si ha conceputo nell’anima una tirannia universale, ma non sa quello che li possiamo fare nel Regno. Un nostro proavo il sig. Antonio Caraffa, avo di nostro padre, fu quello che per nome dell’ ultima regina che morì senza eredi, indusse il re Alfonso d’Aragona a cacciare la casa d’Angiò della quale quella regina come donna instabile era già sazia. Si ritrovava il sig. Antonio Caraffa ambasciator qui per nome della regina, la qual avendo deliberato di dar il Regno a questo re Alfonso, lo elesse per instrumento e tolto di Roma, lo mandò a questa impresa. Espose esso la causa della sua ambasciata, alla quale essendo stato risposto con il con-seglio del re, che per diversi rispetti non li parea ben di tuor quella impresa, disse che avendo fatto 1’ officio suo scriveria come ambasciator quello che gli era stato risposto, ma che però desiderava una grazia di poter parlar con Sua Maestà come cavaliero e servitor particolare, del che compiaciuto gli parlò in modo, perchè era savio ed eloquente, che lo ridusse a quello che avea ricusato, dimostrando la comodità, la fertilità, la bellezza di quel regno, facendogli conoscere che le richieste d’ una regina afflitta, sconsolata, doveano essere accettate e che la occasion delle cose grandi vengono rare volte, che lasciate non ritornano, scongiurandolo per il giuramento che avea dato come re a Dio di liberar i popoli e di soccorrer gli afflitti. Venne il re Alfonso a quella impresa la quale, dopo molti pericoli e travagli suoi, riuscì. E però, magnifico ambasciator, chi sa dopo tanti anni ad un altro della medesima casa Caraffa possa venir