Jta/ianil Nella raccolta ed ansiosa vigilia che, tra fragori d’armi e grida di dolore sonanti sui campi di battaglia di sette Nazioni d’Europa, precede il compiersi dei destini a cui la Patria nostra è improrogabilmente chiamata, voci invocanti ci giungono dalla chiusa valle che l’Adige divide e dall'altra sponda dell’Adriatico. Di quell’Adriatico di cui non possediamo la costa minacciata ed aperta mentre resta in mani nemiche quella minacciosa e guernita. Sono i nostri cari fratelli del Trentino, deU’Istria, della Dalmazia che ci chiamano: sono gli stessi figli di Roma immortale, parlanti come noi la bella lingua d’Italia che ci tendon le braccia pieni d una immensa e profonda nostalgia di patria che rende virile e magnifica la loro angoscia, la loro attesa. Ed ormai non v'è italico cuore che ai Trentini ed agli Istriani non risponda: verremo! Non v'è sogno di giovane in cui non fiammeggi e non palpiti la bandiera tricolore piantata sugli spalti di Castel Verruca, e sulle munite scogliere di Fola Romana. Anche la voce dei Dalmati — e questo c’è d’inlinito conforto — trova linalmente piena rispondenza in tutte le anime Italiane. Ed oggi non soltanto coloro che son nudriti di coltura e di eletto idealità, ma persino gli uomini più umili e più lontani dallo studio delle necessità storiche comprendono che la Dalmazia sarà necessariamente chiusa entro i confini che l’Italia ridesta trasporterà ove il suo diritto imperiosamente comanda.