LA PITTURA NEL PIENO FIORE ECC. 105 chiamato Giorgione per le forme gagliarde della persona è notizia che si trova per la prima volta nel Vasari, perchè nei documenti e negli scrittori del secolo XVI è chiamato Zorzi o Giorgio da Castelfranco; e primo il Ridolfi gli dà il cognome dei Barbarella, coi quali non ebbe alcun legame di parentado. Di Giorgione non restano ritratti, essendo fantastica la tradizione che volle vederne le belle e forti sembianze nel Davide colla testa di Golia, un quadro ora perduto, che fu riprodotto in una incisione nelle Vite del Vasari del 1568. Giorgione fu condotto giovinetto a Venezia alla scuola di Giambellino, ove ebbe a condiscepolo il Vecellio. Salito presto in riputazione e in agiatezza, andò ad abitare una bella casa, nel campo di San Silvestro. Quella casa, di cui dipinse a fresco la facciata, risonava spesso dello strepito di gioconde brigate e di concerti musicali, ai quali prendeva parte egli stesso, eccellente sonatore di liuto. Scrive il Vasari che « nel molto conversare che ei faceva per «trattenere con la musica molti suoi amici», s’innamorò di certa donna, la quale, infetta di lue venerea, gli attaccò il male che lo condusse a morte. Veramente egli morì nella peste del 1510, e ciò deve aver dato origine all’equivoco del Vasari, che profana la memoria del grande e misterioso pittore. Una poetica leggenda narra invece de’ suoi amori con una donna di nome Cecilia, che gli fu sedotta e rapita da un suo discepolo e amico, Pietro Luzzo, detto Zarotto o Zarato, soprannominato il Morto da Feltre, per la pallidezza del volto. Giorgione tanto si lasciò vincere dal dolore che ne morì <*>. Agli Uffizi di Firenze l’effigie di un uomo sparuto con un teschio accanto, è creduto il ritratto del Morto da Feltre. Ma l’opera è da alcuni riconosciuta di scuola fiorentina, da altri del Torbido veronese, senza che alcun indizio ci dica che il dipinto ritragga il pallido feltrino. Il quale, secondo il Vasari, dopo aver dipinto in Roma e in Firenze, acquistando gran nome nel trattar le grottesche, si trasferì a Venezia, dove, insieme con Giorgione, dipinse il fondaco dei (1) Questa leggenda, che ha dato argomento a molte poesie e novelle e al dramma di Pietro Cossa, trae la sua origine da certe arcane parole, che si dicevano scritte da Giorgione dietro alla magnifica tavola d’altare di Castelfranco, e furono cancellate nel 1831 da un restauratore. La scritta, che per la dizione non ha l’impronta del tempo e non l’aveva neppur per il tipo della grafia, diceva cosi : Cara Cecilia, Vieni, t'affretta: Il tuo t'aspetta Giorgio.