450 CAPITOLO XIV. triarcale del 29 maggio 1509 faceva severa ingiunzione alle badesse di non permettere alle monache di andare « per civitatem in caxe de seculari, in piazza di San Marco, « vestide da secular » <*>. Anche di musiche e danze risonava la notte qualche convento. In quello della Celestia, per esempio, dove, al dire di Francesco Berni, le monache facevano la Pasqua come il carnevale, molti giovani patrizi, in una notte 'del 1509, ballarono fino all’alba con le monache, al suono di trombe e di pifferi <2). La corruzione di taluni monasteri veneziani, descritti a Gregorio XIII come pubblici postriboli (3), non poteva esser repressa dalla severità dei giudici <4) i quali nelle pene non si ristavano al bando <5), alla carcere <6), alla tortura (7), ma ricorrevano anche a più terribili supplizi <8). Fra tali esempi e tali costumi andava sempre più impallidendo la fede; ma gli animi, ognora cupidi del mistero e del soprannaturale, si attaccavano alla superstizione, che della fede è come la putrefazione. Continuavano le vecchie superstizioni, e non soltanto la scienza era ancora implicata nell’astrologia, e gli uomini di coltura credevano all’alchimia, e i magistrati più austeri prestavano fede ai responsi degli spiriti, ma sugli animi passava quasi l’alito malefico dei più sciocchi pregiudizi. Delle infantili paure del maligno esiste ancora un ricordo leggendario nel tabernacolo di marmo con un angelo murato nella facciata del palazzo Soranzo, sul canale denominato appunto dell’Angelo. È opera leggiadra di uno scultore ignoto, e fu certamente ordinata, per ornamento o per devozione, dal proprietario dell’edificio, ma la tradizione poti) Gallicciolli, II, 512, 1815, 1818. (2) Sanudo, Vili. 307. (3) Id., I, 836. — Lorenzo Priuli, ambasciatore a Roma, scriveva alla Signoria, il 30 novembre del 1585: « Il Pontefice è stato informato che molti delli monasteri di monache di Venezia e della diocesi di Torcello sono in mal stato, «e ridotti alcuni di loro a pubblici postriboli». (Mutinelli, St. arcana e anedd. d'Italia raccontata dai ven. ambascia-tori, Venezia, 1855, voi. I, pag. 170). Nel convento dello Spirito Santo gli scandali si susseguono, come per triste tradizione. La fondatrice di quel convento, suor Maria Caroldo, ebbe nel 1494 un processo per essere stata accusata di sacrileghe tresche con un sacerdote, con un giovine greco e con un medico. Nello stesso convento, due giovini, Marco Balbi e Francesco Tagliapietra, erano penetrati nel 1491 per fornicare con suore, ed erano stati condannati. E dal recinto claustrale di Santo Spirito fuggì poi nel 1563 suor Cristina Dolfin con l’avvocato Girolamo Fenaruolo, e nel 1567 suor Camilla Rota con Girolamo Corner; e con Bernardo Contarini suor Clemenza Foscarini, la quale divenne poscia concubina di un Pizzamano, che nel 1572 fu processato dal Santo Uffizio. Tassini, Curiosità ven. cit., pag. 692. (4) I processi relativi ai conventi, che si custodivano negli archivi del consiglio dei Dieci, furono distrutti. Nell’archivio dei provveditori sopra monasteri si conservano però ancora venti grosse buste di processi, quasi tutti per mal costume. (5) Nell’agosto del 1502 una suor Maria, priora di Santa Maria Maggiore, fu confinata a Cipro per una tresca con un prete Francesco di Sant’Eustachio, condannato a dieci anni di prigione. Sanudo, IV, 143. (6) Di un prete, Francesco Persicini, rimase incinta la badessa di Ognissanti, e i due rei nel febbraio del 1506 furono imprigionati, come neH’aprile del 1518 fu chiuso in carcere un Venier, monachino di suor Paola Tagliapietra del convento di Santa Maria. Sanudo, VI, 294, XXV, 352. (7) Nel gennaio 1565 i Dieci decretarono di esaminare, etiam con tortura, i giovani patrizi Cornaro, Priuli e Contarini, imputati di aver conosciuto carnalmente monache. Arch. di Stato, Misti, C. X., c. 58. (8) Giustamente, ma orrendamente punito un caso di eccezionale turpezza, avvenuto in un monastero veneziano. Il nunzio apostolico a Venezia, Ippolito Capilupi mantovano, in una sua lettera del novembre 1551, racconta al cardinale Carlo Borromeo, le turpissime cose scoperte nel monastero delle convertite, alla Giudecca. Rettore e confessore di quel convento, il prete Giovan Pietro Leon di Valcamonica commetteva scelleratezze nefande con le monache, che erano circa quattrocento et la maggior parte giovani et belle. Si valeva della confessione per tirar con lusinghe le suore alle sue voglie, e, se trovava resistenza, ricorreva alla prigione e ai tormenti; voleva che le più belle nell’estate si spogliassero e andassero a bagnarsi nella cavana delle barche, ed egli intanto si prendeva lo stesso godimento dei vecchioni con Susanna; se qualcuna di quelle sciagurate rimaneva incinta, la faceva abortire e affogava i frutti dei maledetti amori; rubava le elemosine al convento e faceva lavorar d’ago e di ricamo dì e notte le monache, per trarne guadagno e avere la sua mensa sempre fornita di vivande e di prelibati vini. Alcune di quelle infelici, non potendo più sopportare l’infame vita, fuggirono e propalarono le enormezze del prete scellerato, continuate per il lungo corso di diciannove anni, senza che le magistrature civili ed ecclesiastiche ne avessero avuto sentore. Il Leon, condannato ad essere decapitato e il suo cadavere abbruciato, sul palco del supplizio rivolse al popolo parole di pentimento, attestando la innocenza della badessa, che, nonostante ciò, finì in carcere i suoi giorni. « Et parve, dice il Capilupi, che Dio gli «volesse dar maggior pena di quella.... della giustizia.... perchè il boia gli diede più di otto colpi colla mazza sulla * accetta che gli aveva posto sul collo et non potè tagliarglielo », onde uno dei confortatori, presa la mazza, altri ne dette; ma non bastò, chè l’atroce tormento finì solo quando il carnefice con un coltello distaccò il capo dal busto. Intra, Di Ipppolito Capilupi e del suo tempo, in « Arch. Stor. Lombardo», a. 1893, ser. II, voi. X, pag. 103 e segg. Il discorso fatto al popolo dal prete Leon, si legge nel cod. Cicogna 2082 del museo Correr.