24 CAPITOLO II. dieci e gl’inquisitori di stato <■>, furono oggetto di favole paurose e di perfide accuse. Fu detto che gl’inquisitori giudicavano senza processo, sopra semplici denunzie anonime; formavano invece regolare processo, udivano testimoni e difese, pubblicavano nel maggior consiglio le loro sentenze, nè mai sedettero, come fu erroneamente creduto, in una stanza del palazzo ducale, parata a nero e rischiarata fiocamente da torce gialle, ma in una stanza modestamente arredata, bene illuminata, e col soffitto ornato da un dipinto del Tintoretto, rappresentante le Virtù teologali. Le denunzie segrete erano gittate nella bocca aperta di alcune teste di leone, scolpite in marmo, dette bocche di leone, collocate nelle vie e presso le case dei magistrati. Ma il giudice non accettava accuse anonime; e le lettere senza sotoscrition <-2\ che non citassero almeno due testimoni, erano bruciate, salvo che i capi dei dieci e i consiglieri ducali non dichiarassero, con cinque sesti dei suffragi, trattarsi di affari di stato. Neppure alle spie si credeva, se non avessero indicate testimonianze onorevoli. Un argomento d’imprecazioni romantiche contro Venezia, fu la storia lagrimosa del povaro Fornareto. Dice la tradizione che, nel 1503, un giovane fornaio, di nome Pietro Fasiol, per erronei indizi accusato di aver ucciso un patrizio, fu condannato a morte. Se ciò fosse vero, sarebbe uno di quegli errori giudiziari, tanto deplorevoli quanto numerosi, ma è più lecito il credere a una leggenda, giacché non ne fanno cenno nè le raspe della quarantia criminale, nè i diligentissimi Diarii del Sanudo. Certamente è leggenda che dopo la condanna dell’innocente fornaio si ripetesse ai giudici, che dovevano pronunziare una sentenza: recor deve del povaro Fornareto, e che le due lampade, che si accendono ancora al tocco dell’^\ve Maria dinanzi all’immagine della Madonna sul fianco della basilica di San Marco verso la piazzetta, si accendessero in espiazione del terribile errore commesso dai magistrati. La spesa per quelle lampade si traeva dai fondi della zecca, ed è probabile fosse il frutto di un capitale depositato in essa da qualche marinaio, come compimento di un voto per uno scampato naufragio. Venezia, come tutti gli altri stati di questa età, non è immune da colpe. Se molte accuse e molte calunnie furono distrutte dall’autorità irrecusabile dei documenti, non si può tuttavia negare che il tribunale politico non abbia talvolta abusato del proprio potere, e che la giustizia non si sia talora piegata alla ragione di stato, quantunque alcune azioni di un governo, dopo tanti secoli, possano aver avuto una ragione, incognita a noi, che le rendeva necessarie. In ogni modo non possono non destare ripugnanza gli occulti espedienti, a cui Venezia ricorreva per far scomparire nemici infesti alla patria. (1) Fulin, Di un'antica istituzione mal nota, in « Atti Ist. Ven. », a. 1874-75, t. XXXIII, pag. 1035 e segg. (2) Il Sanudo (VII, 158-159) narra che, il 5 ottobre 1507, fu trovata sulle scale del palazzo ducale una lettera anonima, diretta al principe, nella quale si accusavano tre patrizie, Lucia Soranzo, Marina Emo e Andriana Cappello, di mandare in rovina le famiglie col loro lusso, vietato dalla legge. La lettera non fu letta publice, per la leze non vuol se leza letere senza sotoscrition.