52 CAPITOLO III. altri, ed erano autorevoli uomini di scienza come Girolamo Mercuriale e Giovanni Capodivacca, sentenziavano, nel 1575, che il male non era contagioso Tuttavia gli errori dei loro giudizi, i medici, in ogni tempo, compensarono con la fedeltà ai propri doveri, accorrendo intrepidi al letto degli appestati; e non è che un triste e assai raro esempio di viltà quello del medico Alessandro Benedetti da Legnago, che con la sua famiglia fuggì da Venezia (2). Quale nobile contrapposto si può ricordare Niccolò Dogiioni, di famiglia bellunese, nato a Venezia nel 1548. Ufficiale sanitario del sestiere di Castello, compì, nel 1576 il suo dovere intrepido, e dopo aver veduto morire la moglie e due figli, colpito egli pure dal morbo, fu ricoverato nel lazzaretto, ma potè guarire, ed ebbe ancora il tempo di formare una nuova famiglia e di continuar a scrivere con amore di cose veneziane (3>. Un’altra terribile malattia, non sconosciuta all’età di mezzo, s’era, in modo spaventoso propagata in Italia nell’ultimo decennio del secolo XV, quasi contemporaneamente alla discesa di Carlo Vili. Del 1496 è la prima notizia del morbo gallico a Venezia; nel 1497, un veneto, Niccolò Leoniceno (di Lonigo), scrive il più antico trattato sulla sconcia malattia, che fu descritta da un altro veneto, Girolamo Fracastoro di Verona, in un poema latino, intitolato: Siphilis sive morbus gallicus (1530) (4). Con opera più efficace, Gaetano Thiene di Vicenza (n. 1480), venerato dopo la sua morte qual santo, apriva, nel 1522, a Venezia, sulla fondamenta delle Zattere, il primo ospedale degli incurabili, ossia degli affetti di malattie veneree, giudicati allora incurabili, e fatti segno all’universale disprezzo e allo scherno, di cui restano tracce nel motivo burlesco di molte poesie (5). In questo ospedale, un veneziano, Gerolamo Miani, nel 1531, e due nobili spagnoli, Ignazio di Lojola e Francesco Saverio, nel 1537, curarono gl’infermi con sublime carità. Il Miani, dopo aver passato una gioventù agitata tra le avventure militari, s’era dato tutto alla pietà, e raccoglieva (1524) in una casa a San Basilio i poveri fanciulli, raminghi per le vie, li nutriva, li vestiva, li ammaestrava in qualche arte, specie in quella di far brocchette di ferro e far berrette, precedendo di tre secoli la benefica isti- « eccellentissimo et astrologo nobilissimo, comentando alcuni problemi d’Aristotile, per non mancare alla verità, disse « quod causae pestilentiae plures sunt, ab aliqua namque Costellatione potest aer corrumpi cuius causa a Medico ignoratur, « et queste parole saranno abbastanza d’altri infiniti, che hanno ragionevolmente tenuta questa opinione ». Annibale Raimondo, veronese, discorso nel quale chiaramente si conosce la vera cagione che ha generato le fiere infermità, che tanto hanno molestato l'anno 1575 et tanto il ’76 acerbamente molestano l'invittissima città di Venetia, ecc., Padova, 1576. (1) Lo stesso avvenne nella peste del 1630, in cui un congresso di trentasei professori, tra i quali il celebre Santorio, sentenziò che quella non era peste. (2) Quando il Benedetti stava per lasciare Venezia, il padre di Marco Marcello lo supplicò che gli curasse il figliuolo preso dalla peste, ed egli rifiutò di vedere il malato, ma si fece portare le urine, le esaminò e scrisse quale doveva essere la cura. Fortunatamente il giovine guarì. Puccinotti, St. della Med., Napoli, 1863, voi. II, pag. 201. (3) Cicogna, Jscr. II, 25. (4) Anche lo spagnolo Delgado nel romanzo, La Lozana Andalusa, tratta dell’origine del terribile male. Il Delgado, che dimorò a lungo a Venezia, vi pubblicò nel 1529 un libro intitolato: El modo di adoperare el legno d'India occidentale, salutifero remedio a ogni piaga e si guarisce il mal francese. Cfr. Les courtisanes à Ven. et la police des moeurs à Venise, Bordeaux, 1886, pagg. 50, 51. (5) Calmo, Lettere cit., ed. V. Rossi, appendice I, pag. 371 e segg. Il Rossi riferisce uno strambotto dello Strazzòla fatto per el malfranzoso, che fu trascritto da Marin Sanudo.