LA NUOVA CULTURA 239 i nobili recenti, ornati di virtù e forniti di ricchezze, le quali apportano forza e dignità a ogni nostra azione, e sono disprezzate soltanto da quelli che non sanno bene usarle(l). La morale insegnata negli scritti del Contarmi e del Partita rispondeva alla interezza della loro vita e alla dignità del loro costume, virtù troppe volte dimenticate dagli umanisti, ricchi d’ogni cultura e d’ogni licenza. E come schietto il loro stile cosi la loro parola, lontana, a un tempo, e dalla sottile oratoria forense e dalla fiorita eloquenza letteraria, allora in uso. Buona scuola agli oratori le assemblee della Repubblica, dove quelli che parlavano senza miele retorico erano ascoltati con attenzione silenziosa, e i discorsi noiosamente solenni venivano accompagnati da movimenti di impazienza e da colpi di tosse, con conseguenti sputi, segni manifesti di noia. Marin Sanudo nota, non senza compiacimento, come avendo egli, il 10 luglio 1513, parlato in maggior consiglio, tutti lo ascoltarono con tanta attenzione, che durante il suo discorso, niuno spudoe (nessuno sputò) (2). Mirabile la semplicità dell’eloquio negli uomini, che rappresentavano la patria nei paesi stranieri <3>, e che con acutissimo spirito d’osservazione scrutavano le cause dei fatti sociali, e riempivano di luce i personaggi e gli avvenimenti contemporanei. Le relazioni degli ambasciatori, nel loro italiano tinto un po’ di dialetto, costituiscono una delle più lucide prose d’Italia, la quale vanta parecchi poeti sommi, ma pochi prosatori eminenti. Venezia, che non ebbe mai un grande poeta, s’onora, per compenso, di questi prosatori, che convertono in forza di stile la forza del loro pensiero. I patrizi che nelle magistrature, nella milizia, nelle ambascerie avevano fatta in azione la storia della patria, vollero anche scriverla. La storia, ordinata a un fine politico, sorse foggiata sui modelli dell’antichità, e il primo a cui si addica il nome di storico è Bernardo Giu-stinian (n. 1408), autore del De origine urbis Venetiarum. La Repubblica comprese come la cronaca, nuda esposizione di fatti, trasformandosi nella storia, vivificata dallo spirito critico, avrebbe potuto dar luogo a discussioni irriverenti e pericolose, e con la consueta prudenza volle che gli avvenimenti della patria fossero narrati da uno storiografo stipendiato, scelto per pubblico decreto, al quale si concedeva, sotto la vigilanza del consiglio dei dieci, di consultare i documenti dello stato. Marco Antonio Coccio Sabellico da Vicovaro scrisse, nel 1487, una storia veneziana, ed ebbe uno stipendio annuale di dugento zecchini, ma le sue Deche non furono dettate per ordine del governo. Furono invece, nel secolo decimosesto, pubblici storiografi Andrea Nava-gero, l’ambasciatore morto a Blois, nel 1529, di quarantasei anni, senza poter compiere la storia commessagli nel 1515, Pietro Bembo, Alvise Contarmi (n. 1536, m. 1579) e (1) Della perfezione della vita politica, Venetia, Nicolini, 1579, e Discorsi politici, Venctia, Nicolini, 1599. Fra i molti che scrissero sul Paruta vedi particolarmente Comani, Le doti r. polit. di P. P.t in «Atti dell’Ateneo di Bergamo», 1894; Pompeati, Le dottrine politiche di P. P., in « Oiom. stor. d. lett. it. », a. 1905, t. XLVI, pag. 285 e segg. (2) Sanudo, XVI, 491. (3) Gli ambasciatori ordinari, scelti fra i patrizi, erano mandati alle corti di Roma, di Francia, di Spagna, di Vienna e di Costantinopoli (bailo). Alle corti di Londra, di Napoli, di Torino, di Milano, di Firenze, di Mantova, erano inviati agenti diplomatici col titolo di residenti, scelti fra i segretari del senato. In speciali circostanze si accreditavano ambasciatori per altri paesi.