96 CAPITOLO V. magnifica efficacia, che manca nelle precedenti età, più fredde e ingenue, e si guasta nelle successive, più artificiate e corrotte. Studiavano soprattutto gli effetti pittorici più appariscenti, gli atteggiamenti più eleganti o più maestosi, gli scorci più arditi, i contrasti più vivi delle luci e delle ombre. Non cercavano l’idealità del concetto, non badavano alla fedeltà storica; contenti di non mentire al vero, che avevano sott’occhio, non vedevano e non rappresentavano se non i patrizi dalle ricche vesti, le belle donne bionde, i suntuosi banchetti, le feste trionfali. Paolo Veronese, benché religiosissimo, si piaceva delle più strane licenze nelle sue tele di sacro argomento, e nella Santa cena, pel convento dei Santi Giovanni e Paolo, rappresentò, accanto a Nostro Signore, apostoli che si stuzzicavano i denti con la forchetta, uomini d’arme tedeschi con alabarde in mano, servitori ai quali esce sangue dal naso, buffoni con pappagalli, tutte cose che a qualche anima timorata potevano sembrare colpevoli profanazioni, onde il tribunale del Santo Ufficio chiamò il Veronese perche spiegasse simili buffonerie. Il pittore argutamente rispose che (Fot. Alinari). egli dipingeva figure e non concetti, e che i pittori possono permettersi « quelle licentie « che si pigliano i poeti e i matti senza prendere tante cose in consideration ». Non tanto dotti di storie sapienti, quanto abili nel dipingere, si accontentavano di seguire le liete visioni che la mente, l’occhio, la mano sapevano trarre dall’arte. Il secolo non chiedeva di più, o, per dir più giusto, avrebbe chiesto all’arte seduzioni ancora maggiori. Quel gran cinico di Pietro Aretino scriveva al marchese di Mantova, promettendo di procurargli dal Sansovino « una Venere sì vera e sì viva, che empia di libidine il pensiero di «ciascuno che la miri»; e da Sebastiano dal Piombo, un quadro di bella invenzione, fuori de’ consueti soggetti sacri « senza hipocrisie, nè stigmati, nè chiodi » (1>. Quasi una imagine visibile di tutta l’anima del secolo fu Tiziano Vecellio, grande come un genio, splendido come un re. « Fu il più bello e maggiore imitatore della natura», dice il Vasari. E in verità non mai, come in questo impareggiabile coloritore, la pittura fu ricca e forte e vera. Nessuno ha reso meglio di lui il fremito della carne, il diletto dei sensi; spirito che non s’interroga e non si ascolta, egli ha la tranquillità della forza e accetta la vita com’è, senza indagarne i misteri. Soltanto nel ritratto, in quel muto dialogo tra il pittore e chi sta a modello, egli, non distratto da altre visioni, scopre, come il Tintoretto, nelle linee mobili del volto l’indole e gli affetti, e scende sino all’anima con tale un’acuta indagine psicologica, da far rassomigliare il suo pennello alla scrutatrice parola degli ambasciatori veneziani. Il Vecellio domina come un sovrano la PAOLO VERONESE — IL CONVITO IN CASA DI LEVI. (Venezia, Accademia). (1) Aretino, Lett, cit., lib. I, c. 13 t. — Cfr. Luzio, P. A. a Veri, e la Corte dei Gonzaga, Torino, 1888, pag. 18.