LA NUOVA CULTURA 229 tificava le giovanili energie dell’intelletto colle sottili e artificiose argomentazioni dei commentatori di Aristotile. Bisognava ritornare al testo originale dello Stagirita, rifare scienze e ingegni colla sua guida e con l’osservazione della natura, ripudiando i commenti dell’averroismo; e, fra il dispetto dei vecchi maestri e l’entusiasmo dei giovani condiscepoli, il Barbaro cominciò la sua propaganda ribelle, che, non appena laureatosi, continuò a Venezia (,). Dalla cattedra padovana insegnarono umanisti quali Niccolò Leonico Tomeo, Marco Musuro, Lazzaro Bonamico, Sperone Speroni, l’Egnazio, il Sigonio; filosofi come Nicoletto Vernia di Chieti, Pietro Pomponazzi, Cesare Cremonini da Cento: giuristi come Marco Benavides, Guido Pancirolo, Jacopo Menochio; matematici del valore di Prosdocimo dei Beldo-mandi, del Regiomontano, di Giorgio Peur-bach; medici, anatomici, botanici della fama di Girolamo Mercuriale, di Andrea Vesalio, di Gabriele Falloppia, del Santorio, di Antonio Vallisnieri, di Prospero Alpino e di Girolamo Fabricio d’Acquapendente. All’insegnamento che a Padova s’impartiva accorrevano da ogni parte gli scolari; alcuni dei quali divennero sovrani della chiesa, come Eugenio IV, Sisto IV, Innocenzo Vili, Gregorio XIV, Clemente Vili; altri sovrani di popoli, come Gustavo re di Svezia e Giovanni Sobieski di Polonia; altri toccarono i più alti gradi nel regno del pensiero, come Niccolò Copernico. Quantunque la Repubblica, tra la disciplina cattolica e la libertà di pensiero, abbia saputo sempre bilanciare le cose in modo che i mezzi i quali giovavano a un proposito non nocessero all’altro, tuttavia molte fra le più audaci idee religiose trovarono in Venezia libertà di discussione, e molti spiriti ribelli ebbero sicurezza di vita. Pier Paolo Ver-gerio, vescovo di Capodistria, che aveva avuto dalla Repubblica pubblici uffici, fu per le sollecitazioni del nunzio apostolico monsignor Della Casa, processato per sospetto di eresia, ma potè rimanere indisturbato a Venezia e a Padova, fino a che, abbandonata del tutto la Chiesa, si rifugiò in paesi stranieri. Venezia offriva asilo sicuro a Clemente Marot di Cahors, che sospettato di luteranesimo era prima riparato a Ferrara presso Renata d’Este; lasciava anche pubblicare la traduzione italiana della Bibbia all’esule fiorentino Antonio Bruccioli, fautore delle nuove dottrine. Nel medesimo tempo, per non scontentar troppo il Vaticano, ordinava la distruzione dei libri ebraici e delle opere di propaganda della Riforma (2'. Lo scrittore tipografo Stefano Dolet (1509-1546), arso poi (1) A. Ferriguto, Almorò Barbaro dt. (2) Venezia accontentò il Vaticano che ordinava la distruzione dei libri ebraici, e i decreti dei dieci comandarono di brusar pubblicamente, sulla piazza di San Marco, il Talmud (Arch. di Stato, Cons. X, Comuni, reg. 11, c. 57 t.). Non si voleva neppure che il popolo fosse turbato da riforme religiose, e si obbedì ancora a Roma combattendo la diffusione dei libri ispirati alla Riforma. Per un esempio, si permise che il vicario patriarcale, accompagnato dal segretario dei dieci, andasse in casa di un Zordan tedesco, libraio a San Maurizio, « a tuorne le opere di Martin Lutero «stampate in Alemagna et mandate in questa terra a vender... * (Sanudo, XXIX, 135). Tamen, aggiunge il Sanudo, « io ne havia auto una e l’ho nel mio studio ». Però alle restrizioni sulla stampa, troppo rigorose, del concilio Jdi Trento, e agli Indici, troppo intolleranti, che si volevano imporre da Roma, Venezia seppe talvolta arditamente resistere. Cecchetti, La Rep. di Venezia e la Corte di Roma cit., pag. 405.