198 CAPITOLO .VII. all’antico dono di uccelli palustri che il principe soleva fare ai patrizi (l). Nei primi anni del secolo XVI, l’isola contava circa trentaduemila abitanti, i quali godevano di molta prosperità grazie all’industria vetraria. Al fervore dei giorni di lavoro succedevano gli spassi dei giorni festivi, yuando, la sera del sabato, taceva ogni strepito di opere, per ricominciare sull’imbrunire della domenica, i maestri e gli operai, sbarbati e puliti, indossavano gli abiti di festa; e poiché in tutta Murano non v’erano che due sole pubbliche vendite di vino, si adunavano nei casini per giocare alle carte, o sulla piazza per darsi al giuoco della palla, o per assistere alla festa dei tori. Così ne’ pubblici trattenimenti, come nei festini privati, accanto agli operai non disdegnavano di trovarsi i gran signori, che nell’isola industre possedevano da molto tempo orti e case(2). Dalla vicina città approdavano numerose le gondole, portando i patrizi, che venivano a cercar distrazioni alle cure di stato, le dame che amavano passare il tempo in piacevoli brigate, gli studiosi che si riducevano a ragionar di scienze e di lettere in quegli orti che ricordavano il giardino ateniese di Académo e l’orto fiorentino di Bernardo Rucellai. Le dotte adunanze si alternavano alle feste nella dimora stupenda di stile archiacuto dei Da Mula, nell’altra dei Mocenigo, con le stanze adorne di bellissimi affreschi, allusivi alla musica, alle poesie, all’amore, in quella dei Trevisan, disegnata da Daniello Barbaro, assistito da Andrea Palladio, decorata di sculture di Alessandro Vittoria e di Domenico da Salò, di pitture di Paolo Veronese e di Giambattista Zelotti. Nel palazzo, circondato da archi trionfali, della famiglia Cornaro, è fama venisse qualche volta a soggiornare la regina Caterina, e nel palazzo Cappello fu accolto ospite Enrico III di Francia. Il palazzo, che intorno al 1536 ospitò il fuggitivo Ottaviano Maria Sforza con la figliuola Lucrezia, moglie di Giovan Francesco Gonzaga, è descritto da Gianfrancesco Straparola da Caravaggio, come un edifizio bellissimo, con una corte spaziosa, logge superbe, marmoree scale, e un giardino « pieno di ridenti fiori, copioso di vari frutti e abbondevole di ver-« deggianti erbette » w. Gli orti numerosi sono chiamati « veri paradisi terrestri, lioghi « de ninfe e semidei » dal bizzarro Andrea Calmo; e da Ortensio Landò, anche più bizzarro, « i più belli che avesse mai l’antica e la moderna età »(4). Cornelio Castaldi da Feltre esalta in un carme latino la bellezza incomparabile del giardino dei fratelli Priuli