442 CAPITOLO XIII. sogliola (sfogio), condita con certa salsa agrodolce, detta saor. Con chiassosi banchetti e spillando il vino nuovo si celebrava anche il San Martino, con un tripudio che, se non discendeva dalle feste bacchiche dei pagani, aveva però con esse molte rassomiglianze (1). Romorose brigate giravano la sera diquel giorno per le strade, fermandosi sotto le finestre, intonando in coro canzoni, con le quali facevano mille auguri di prosperità e chiedevano doni di vivande e di vino <2). In tanta folla, di rado s’attaccavano risse micidiali. Le stesse divisioni tra la fazione dei Castellani, che portavano il berretto e la fascia rossa, e quella dei Nicolotti, col berretto e la fascia nera, non compromisero mai la tranquillità dello stato, e le loro lotte costituivano esse stesse uno spettacolo pubblico, non degenerando quasi mai in conflitti sanguinosi tra quegli uomini, che nel pericolo della patria si sentivano tutti figli di San Marco. Tutto il gran moto veneziano passava tra la festosità. I rozzi carnevali dell’età di mezzo andavano facendosi più briosi e non finivano con la quaresima; dal 1458 al 1607 si susseguono i decreti dei Dieci, che vietano mascheras qui vadunt per civitatem anche fuori del carnevale <3>. Insieme col Magnifico, con lo Zanni, col Mattaccino, comparsi già sul teatro, incominciano a vedersi brigate di maschere con una specie di costume bacchico e una corona di fronde in testa, che suonano chitarre e mandolini; altri camuffati da diavoli che tirano uova piene d’acque odorifere alle donne affacciate alle finestre e via via <4). Negli stessi giorni tristi e luttuosi non si sapeva rinunziare alle feste. Così, per esempio, nel 1509 lo smarrimento angoscioso per la disfatta di Ghiaradadda non durò a lungo, e Girolamo Priuli, con la consueta, ma non sempre inopportuna, rampogna, osservava come il carnevale di queH’anno funesto fosse, più dell’usato, allegro e romoroso, e « si solen-« nizzasse con tanta allegria e bagordo, con quantità di mascherate, balli e suoni, « come se fosse Venetia nella più quieta pace e nella più ricca esistenza, tanto è « corrotta la gioventù in ogni genere di lascivia anco abbominevoie, et in ogni sfac-« ciata compiacenza » <5>. Da più opportuno e ragionevole giubilo fu accompagnato, dopo la vittoria di Lepanto, il carnevale del 1571, in cui destò ammirazione una numerosa e svariatissima mascherata, composta di giovani travestiti da stradiotti, da svizzeri, da turchi, da negri, da pescatori, da ortolani, che, fra suoni e canti, seguivano parecchi carri sui quali erano i simulacri della Fede, di Venezia e delle tre parti del mondo allora conosciute <6). Queste mascherate divenivano sempre più sfarzose con figurazioni mitologiche, astronomiche e allegoriche. Un letterato, Francesco (1) Carmeli, Lo Storia di varj cost. sagri e prof, ecc., t. II; Costadoni, Rag. sopra l'orig. delle fest. ricreaz. ecc. di S. Martino nella « N. Raccolta d’opusc. » del Calogerà, Venezia, 1770, t. XX, pag. 135-60. (2) Una canzone in quel linguaggio veneto-schiavonesco, che ebbe nel secolo XVI una piccola letteratura, ci tramanda come un’eco di quelle baldorie popolaresche: Benvegnuo sia Martignun, che se allegra tutti quanti, e misser, maduna e santi e ogn’altro compagnun Ben vegnuo sia Martignun. Ognun triumpha, bevi, magna bon formaio, bon frutaia, de bon carne, bon lasagna, bon gallina, bon capun, Ben vegnuo sia Martignun... Tuti vadi note inturno, magna, bevi infina zurno; e cantando suna curno, dami nespula e marun Ben vegnuo sia Martignun. Canz. alla Schiavonesca di San Martino in Canzoni ant. del pop. it. cit., ed. Menghini, voi. I, fase. 4. Vedi la nota a pag. 86 e segg., di Vitt. Rossi. (3) Mutinelli, Lessico (Venezia, 1852) alla voce Maschere. (4) Vedi le tavole incise nell’opera di P. Bertelli Diversar. Nationum Habitus, Patavii, 1591, t. II. (5) Priuli, Diari, cit., c. 168, t. (6) Ordine et dichiaratione di tutta la mascherata fatta nella città di Venezia la domenica di- carnevale MDLXXI per la gloriosa vittoria contra Turchi, Venetia, Angelieri, 1572.