8 CAPITOLO I. E agli stranieri s’univano gli italiani, come un Betuzzo da Cotignola, il quale gridava irato : Mora, mora Veniciani, mora ’sti arabiati cani, con soi falsi tradimenti e da ogniun scacciati e spenti sien tutti a questo passo 0). Agli oltraggi a Venezia, che sono valido argomento di sua grandezza, rispondono le lodi degli ammiratori, e gl’inni di una legione di poeti (2>, che osannanti accompagnano la Repubblica nelle sue guerre e nelle sue conquiste, la confortano nelle sue sventure, la esaltano nelle sue leggi, nelle sue bellezze d’arte, ne’ suoi costumi singolari. Tutti cantano le lodi della città, che Gabriele Chiabrera chiama Sposa di Nettuno, l’adorno seggio ove la cara libertà ripara. Nè mancano al coro encomiastico gli stranieri, e l’umanista francese Marcantonio Mureto scrive in latino un carme alla gloria di Venezia, e in un poema, pure latino, un altro francese, Germano Audebert, dopo averne descritto i monumenti, le feste, i costumi e la potenza marittima, parla diffusamente delle magistrature, ed esclama che maggior giustizia non si sarebbe potuto trovare neppure al tempo di Saturno: Cultus justitiae, sancti reverentia juris equior aurato Saturni non fuit aevo <3>. Il celebre epigramma di Jacopo Sannazaro è parafrasato, imitato, copiato <4>. Non soltanto i poeti, facili lodatori, ma gli spiriti più liberi guardano a Venezia come all’imma-gine dell’autorità e della grandezza della romana repubblica. Così Bernardo Tasso scrive al conte Claudio Rangone: « In questo oscuro e tenebroso secolo, quale altra luce o splen-« dorè è rimaso alla mia povera Italia? Non siamo noi tutti servi, tutti tributari, non « dirò di barbare, ma di straniere nazioni?.... Questa sola ha conservato la sua antica « libertà, questa sola a niuno (fuorché a Dio e alle sue ben ordinate leggi) rende obbe-« dienza. Conserviamo queste reliquie, anzi questo esempio dell’antica dignità » <5>. Bernardo Ocliino, il frate ribelle, predicando, nel 1539, nella chiesa dei Frari, esclamava: « E guardo in ogni parte; non vi è più torre nè città in Italia che non sia pertur-« bata; solo questa città sta alquanto in piede e però mi pare che contenga in sè tutta (1) Medin, La St. della Rep. di Veri, nella poesia, Milano, 1904, pagg. 119, 150, 151. (2) Per non citare che i più noti, Marcantonio Sabellico, Gabriello Chiabrera, Francesco Modesti di Salucedio, Gregorio Oldoini cremonese, Francesco Arrigoni bresciano, Marco Thiene vicentino, monsignor Giovanni della Casa, Andrea Navagero, Bernardino Tomitano. Vedi le Bibliografie del Cicogna e del Soranzo, i Componimenti poetici di vari autori in lode di Venezia di Jacopo Morelli (Venezia, 1792) e la citata opera di A. Medin. (3) Germani Audeberti, Venetiae, Venetiis, Aldus, 1583. (4) Non è inutile riferire il notissimo epigramma del Sannazaro: De mirabili urbe Venetiis Viderat hadriacis venetam Neptunus in undis Stare urbem et toto ponere jura mari: Nunc mihi Tarpejas quamtumvis, Jupiter, arces Obiice, et illa tui moenia Martis, ait, Si pelago Tybrim praefers, urbem adspice utramque: Illam homines dices, hanc posuisse deos. Narra G. B. Crispo di Gallipoli nella Vita del Sannazaro: «.... negli Epigrammi argutissimo e pieno di molto sale : « e per uno solo fattone in lode del meraviglioso sito di Venetia, mi afferma il signor Aldo Mannucci haverne avuto in dono « cento scudi per ciascun verso dalla Serenissima Repubblica ». Forse, inspirati da ciò, molti poeti imitarono i versi del Sannazaro. Per esempio, una variante dell’epigramma si trova nel poema del bresciano Francesco Arrigoni, intitolato De omni Venetorum excellentia: Humanus labor est in terra ponere muros Divinus autem in aequore. (5) B. Tasso, Lettere, Padova, 1733, voi. I, pag. 72.