10 CAPITOLO I. nistri dei principi stranieri. Potevano bene gli ambasciatori veneziani, con facilità maravigliosa, pigliar l’abito e i costumi dei paesi dove erano inviati, ma non si voleva che gli agenti politici stranieri entrassero in familiarità coi patrizi e approfondissero troppo la conoscenza delle cose della città. Se non si pensasse che ogni atto politico era ispirato a un vivissimo amor di patria, si potrebbe scambiar col cinismo l’indifferenza di Venezia per tutto ciò che poteva commuovere gli altri popoli. Singolari, per questo rispetto, le risposte che si vuole abbia dato il doge Andrea Gritti all’ambasciatore cesareo e a quello di Francia, dopo che Francesco I era stato fatto prigioniero a Pavia. Il ministro dell’imperatore entrava ad annunciare alla Signoria la vittoria dei suoi, quando il vescovo di Bayeux, legato francese, ne usciva; e il doge, che aveva fatto le sue condoglianze a quest’ultimo, si congratulava col primo, aggiungendo con un sorriso che in ciò non vi era contraddizione, giacché la Repubblica, essendo ugualmente amica dei due monarchi, ral-legravasi, secondo il consiglio di San Paolo, con quelli che erano lieti e piangeva con quelli che erano in pianto. Sopra tutto era nell’animo dei patrizi il concetto che la costituzione aristocratica, creata dai loro padri, or con pazienza, or con audacia, avesse salvato la patria dalla tirannide di un signore e dalla licenza della moltitudine. Il potere in niun modo partito doveva essere quindi commesso all’intelligenza educata, non alla collettività, nella quale i valori umani restano troppe volte confusi. Questa concezione ristretta dello stato fondato su privilegi, i quali con danno di molti profittavano a pochi, conteneva in sè i germi del morbo che andò corrodendo la Repubblica. Per verità, se l’aristocrazia si appartava sempre più dalla moltitudine per le cose attinenti al potere politico, in tutto il resto si dimostrava bonaria, indulgente, accondiscendente, sempre sollecita di dare quiete e sicurtà di vita al popolo. Il quale, se confrontava le sue leggi con quelle degli altri stati, doveva reputarsi fra le genti meglio governate della terra; se considerava la temperanza dei carichi e l’utilità di formar parte di uno stato forte e potente, doveva convincersi che nessun’altra nazione godeva di maggior agiatezza. Il popolo, negletta la virtù militare, si fece poco desideroso di mutazioni; ma la vita, tra feste e spettacoli, vuota di ogni azione politica, ammorbidì il suo carattere, non alimentò il suo patriottismo, non favori la sua operosità. Fra i nobili e la plebe si assideva la cittadinanza originaria, chiamata poi dei segretarii, a cui erano concessi alti uffici pubblici, ma che, al pari della plebe, non aveva alcuna partecipazione nel governo, nessuna efficacia nella cosa pubblica. La divisione profonda, che faceva degli uomini quasi due diverse specie distinte, ebbe nel 1526 la sua consacrazione nel Libro d’oro, specie di registro di stato civile del patriziato. Chi si fosse attentato di propor novità negli ordinamenti politici era severamente punito, come avvenne nel 1541 a Bernardo Cappello, uno dei patrizi più onesti e più intelligenti, condannato al bando perpetuo, non per altro che per aver in Senato fatta parola di innovazioni nella costituzione dello stato <•>. Tanto i patrizi erano gelosi della preminenza avuta in retaggio, che persino tra loro non ugualmente si apprezzavano, distinguendo nei segni di onoranza i nobili di antica origine dai recenti. L’antagonismo fra i rappresentanti delle case vecchie, chiamati i longhi, e quelli delle nuove, chiamati i curii, si manifestò per la prima volta nel 1486, nell’elezione del doge Agostino Barbarigo. Un’altra classe di nobili poveri e turbolenti fu chiamata prima sguizari e poi barnabotti (2). I gentiluomini ricchi, che pur si compiacevano dei titoli boriosi <3>, (1) Apostolo Zeno, Annotazioni alla Bibl. dell'Eloquenza It. del Fontanini, Venezia, 1773, voi. II, pag. 68. (2) Scrive il Sanudo (XXVIII, 65): a Chi voi honor bisogna dar danaro ad alcuni poveri zentilhomeni, i qual è chiamati * sguizari ». Furono poi chiamati Barnabotti dalla contrada di San Barnaba, dóve i nobiluomini poveri dimoravano in casa del Comune. A quelli di Venezia facevano riscontro i poveri nobili genovesi, che vivevano dei lasciti provenienti da fondazioni nelle compere di San Giorgio, e che nelle elezioni dei dogi vendevano, nelle loggie dei Banchi, il loro voto. (3) I Nobili Huomini (N. H.) non avevano legalmente altro titolo che quello di sier (sere). Ebbero poi anche il titolo di magnifico, e abusivamente quello di eccellenza, salvo che nei Consigli. Il doge fu chiamato serenissimo principe] il senato