138 CAPITOLO IV. colarmente nei reati politici, procedendo sommariamente e talvolta dandone avviso dopo eseguita la sentenza*1). Nessuna esenzione papale poteva sottrarre il clero alle pubbliche gravezze, ai prestiti dello stato, alle angherie o prestazioni personali, tra le quali l’obbligo di far la guardia al palazzo ducale*2). Una legge del 1258 prescriveva che gli acquisti per parte di preti non potessero farsi, nisi salva ratione Cornu-nis, cioè salvando i diritti del Comune, per esigerne i tributi e le fazioni personali*3). A più gravi servigi personali erano obbligati gli uomini di chiesa, se la patria avesse ciò richiesto: così nel 1379, durante la guerra di Chioggia, fu ordinato a certi frati di combattere contro il nemico, ed essendosi essi rifiutati, col pretesto che la loro regola vietava il portar armi, furono senz’altro espulsi*4). La Repubblica sentì pure la necessità di restringere l’accumulamento delle terre e dei possedimenti, donati o lasciati alle chiese e ai conventi, i quali costituivano quella ricchezza che nella sua sterile immobilità fu in ogni tempo il maggior danno per la vita economica di un paese; concetto di governo, codesto, che basterebbe da solo a provare l’alta sapienza civile dei Veneziani, e va tenuto presente per spiegare con la limpida e costante tradizione, pari ad un sicuro stato di coscienza, le ragioni di una coraggiosa politica ecclesiastica, non del tutto chiara se osservata ristrettamente ad alcuni episodi clamorosi. Furono per ciò contenuti i lasciti e le donazioni di proprietà a sacerdoti e comunità religiose, e regolate le vendite d’immobili appartenenti alle chiese. Notevole, fra le altre, la legge del 1232, che proibisce ai monaci e alle monache di succedere nell’eredità paterna, che vieta di testare a chi entra in monastero, ordina che i beni immobili del professo passino ai suoi eredi naturali. Un’altra legge del 1297 restringe i lasciti ad pias causas, e un’altra del 1332 prescrive che se, per testamento o per donazione inter vivos, si fosse trasferita una proprietà qualunque a benefizio di alcuna causa pia, entro dieci anni quella proprietà dovesse essere venduta e il prezzo consegnato a coloro, ai quali era commessa la pia ordinazione *5>. E poiché spesso, per edificare chiese e monasteri, si devastavano domus, terre et possessiones, il Governo decretava « quod de cetero in civitate Rivoalti non possit de novo fieri hospitale, nec mo-« nasterium nec aliquod simile laborerium »*6>. Nè questi ed altri provvedimenti impedirono a Venezia di rispettare e proteggere il clero nel suo ministero spirituale. Le fiere controversie de’ primi tempi fra dogi e patriarchi non ebbero origine da ragioni dommatiche, ma da conflitti di giurisdizione, inaspriti da dissensi ed attriti personali, e soltanto le energiche risoluzioni del Governo valsero a troncare quei contrasti, nocivi alla dignità della Chiesa e dello Stato. Le stesse censure papali furono originate da dissensi politici, non da questioni religiose. 11 primo interdetto, che colpì Venezia nel 1284, ebbe origine dal rifiuto opposto a papa Martino IV, il quale chiedeva armi ed aiuti per Carlo d’Angiò contro Pietro d’Aragona. Due altre scomuniche, nel 1303 e nel 1309, lanciò Clemente V contro i Veneziani, i quali, dopo la morte di Azzo X d’Este, avevano preso Ferrara, ch’era sotto l’alto dominio di Roma. Parimente interessi terreni avevano infervorato il papa nell’assunto d’introdurre a Venezia la santa Inquisizione, accolta già da altri stati. Venezia, immune da ogni fanatismo di credenti e di miscredenti, respinse più volte la proposta, ma, fattesi più vive le istanze, consentì, nel 1249, che tre secolari, nominati dal doge, (1) Cecchetti, La Rep. di Ven. e la Corte di Roma cit., voi. I, pagg. 144, 145, 148, 262, 263. (2) Ibid., pag. 121. (3) Friedberg-Ruffini, op. cit., pag. 102. (4) Gallicciolli, II, 1812. (5) Friedberg-Ruffini, op. loc. cit. (6) Gallicciolli, II, 109.