70 CAPITOLO II. dramma, che si chiuse con la decapitazione del doge, la tradizione volgare assegna una parte principalissima alla moglie Aluica o Lodovica di Niccolò Gradenigo. Fu a lungo ripetuto che la cospirazione del Faliero ebbe origine dalla vendetta di un’offesa, che feriva l’onore della dogaressa e non parve al doge abbastanza punita dai magistrati. Un vecchio testo riferito dal Sanudo racconta come, in certa festa al palazzo ducale, un giovine patrizio, Michele Steno, invaghitosi di una donzella della dogaressa, le facesse un atto poco conveniente, per cui il doge comandò che fosse cacciato dalla sala. Michele, per vendetta, lasciò sulla sedia del doge questa scritta infamante : Mariti Falier doxe, da la bela moier, altri la galde e lui la mantien. Lo Steno fu condannato a un mese di carcere, a cento lire d’ammenda e ad esser battuto con una coda di volpe. Di una pena così mite, scrive il Sanudo, « il doge ebbe molto a male, e incominciò a « fare il trattato contro Venezia » (1>. Altri cronisti aggiungono, di tempo in tempo, particolari a questa trama, e ne viene un episodio romanzesco. La critica storica deve sfrondare largamente questi racconti. Infatti gli atti della quarantia smentiscono in moltissima parte la tradizione volgare, e il Sanudo che, giovine ancora, avea molto probabilmente attinto a quest’ul-tima, scrisse più tardi in margine al suo libro, se non delle correzioni, almeno delle note dubitative, dopo avute su quel fatto maggiori e sicure notizie. Villane parole erano state scritte in sala caminorum in vituperimi domini ducis et ejus nepotis, e Micaletto Steno, primo de’ condannati, prò bono exemplo, fu trattenuto in carcere una diecina di giorni. Non era raro il caso di ingiurie al doge, e sempre miti erano le pene, laddove erano gravi nel caso di offese all’onore dello Stato. La congiura fu ispirata non già da vituperi lanciati alla moglie matura, o alla giovine nipote, ch’era una Contarini, ma dall’ambizione del doge, che voleva rendersi signore della città; il resto non vale. L’infelice dogaressa passò tristi gli ultimi anni della sua vita, fra le angoscie che le turbarono la ragione (2). Spenta nel sangue l’ambizione dei potenti, ristretta sempre più ogni ingerenza popolare nella sovranità dello stato, l’aristocrazia poteva ormai dirsi sovrana. Quando finalmente, il 7 aprile 1423, l'arengo non fu più convocato se non per annunciargli l'elezione del doge, Venezia sdegnò la denominazione di Comune, chiamando sè stessa la Signoria di Venezia. Dopo le prime agitazioni, per rivendicare CAPO DEL CONSIGLIO DEI DIECI. Dagli « Habiti antichi e moderni » di Cesare Vecellio, Venezia, Ze-naro, 1590. (1) Sanudo, Vite dei Dogi cit., col. 631 e seg. (2) Fulin, Gl1 Inquisitori dei Dieci, in « Arch. Ven. », a. 1872, t. I, pag. 32 e seg.; Due documenti del doge Marino Falier, ivi, a. 1875, t. VII, pag. 94 segg. ; Molmenti, La dogaressa di Venezia, Torino, 1887, cap. VI ; Lazzarini, Marino Faliero. La congiura, Venezia, 1897.