guerra — non una parola. Ed è questo silenzio sul fatto, ed è questa indifferenza del fatto concreto e positivo della guerra, che han reso possibili le ridicole e ripugnanti logomachie, nel nome di questa o quella idea, nel nome di questo o quel principio, di tutti gli intriganti, i mestatori, gli speculatori, dei bassifondi europei, tendenti a instaurare sul sangue e sui sacrifizi altrui il regno delle loro ignominie e delle loro nazionalità. Non è possibile leggere il bilancio dei morti e feriti e dispersi della nostra guerra pubblicati ieri dal Ministero della Marina, e insieme il resoconto delle logomachie del Congresso di Parigi, senza sentir la voglia di pigliare a schiaffi — oh, giocondamente, non dubitate — l’umanità, per l’oblio che da un giorno all’altro essa mostra delle sue più aspre tragedie e del senso di responsabilità che queste tragedie dovrebbero creare e alimentare per il più alto valore della morale nella vita pubblica e nella privata — se è vero che il problema della morale nella vita pubblica e privata debba essere anche nell’avvenire un problema di responsabilità. Ma come? L’Italia ha perduto — e quello che dico per l’Italia valga anche per la Francia e per il Belgio, i paesi più provati — l’Italia ha perduto tra morti, feriti, ammalati, dispersi, presso a tre milioni di uomini, ha perduto con gli uomini tanta parte del suo lavoro accumulato in ricchezza, e la discussione delle sue questioni deve farsi sullo stesso piano e la risoluzione di queste questioni deve dipendere anche dal beneplacito o dall’intesa dei poltroni e dei cialtroni che hanno aspettato che la tempesta dileguasse per metter fuori al sole dell’ideale la pancia fino a ieri satolla con gli avanzi delle cucine di Casa d’Austria? Questa iniquità politica e morale è possibile soltanto per il fatto che gli Accademici del Congresso di Parigi han soppresso mentalmente la guerra dalle loro - 258 -