NEL SOLCO DELLA VITTORIA. La vittoria non ci inebria, nè ci esalta. Entrata in guerra l’Italia doveva vincere, o sparire. Sparire, sotto il piede dei turchi e dei bulgari e dei bosniaci, che l’avevano invasa, in un’ora di sciagura? Non era possibile. Dunque non doveva che vincere. Vincere, non ostante tutto : non ostante la peste interna dei suoi partiti disfattisti, non ostante la ferocia esterna dei suoi nemici in campo : vincere per la forza delle idee che rappresenta, per la nobiltà del destino che formò la sua antica e formerà la sua storia novella, per l’intima virtù della sua stirpe che nessuna ignominia di barbarie ha potuto mai corrompere nè svalutare: vincere, insomma, per tutte le leggi di civiltà che governano il suo essere ed hanno la stessa semplicità e divinità delle indistruttibili leggi della natura. E vinse. Qual meraviglia? Tutti noi che persuademmo alla guerra, e sprezzando le ingiurie e le offese dei deboli di mente e di cuore, dei moschettieri più o meno spennacchiati dei due Imperi tra noi, e attraverso la; fiera odissea di tre anni di disperazioni più che di speranze insistemmo sempre serenamente e tenacemente nell’idea prima, tutti noi che vedemmo con tristezza ma senza paura fluttuare gli animi a Montecitorio prima che le bandiere a Capo-retto, eravamo sicuri della vittoria — più o meno fati- —.*75 —