- 59 - niva fattore di bellezza, suscitatore di religiosi entusiasmi, ispiratore di grandiosità, di preziosità da consegnarsi all’edificio divino. E quale febbre per arricchir- lo ! Nessuna nave tornava dalle remote terre di Levante, dall’Attica, dal Peloponneso, dall’Arabia, dalla Siria senza portarvi l’offerta di ricchissimi materiali. Aitino e Torcello, Eraclea e Grado e Aquileia ed altre città intristite o già spente tra le velme mentre più e più vasto facevasi il respiro primaverile di Venezia, donavano anch’esse, donavano. E così l’Istria e la Dalmazia, così il tempio di Diocleziano. Approdavano, nella loro luminaria di vele, le navi cariche dei resti di antichissime fabbriche minate colle religioni, di fantastici palazzi, di teatri e di circhi, di ville e di terme; e colonne e archi e pilastri ed are e stele, il pagano e il paganeggiante e il cristiano, quanto aveva echeggiato degli inni a Giove proteiforme, a Venere molteplice, quanto aveva risonato di grida belluine o smorzato sussurri voluttuosi, veniva a far mazzo d’ogni fiore da deporsi stabilmente a gloria del palladio della patria il quale, appunto, parlava di pace e già si ornava di trofei di guerra, chè la lotta era per la pace, chè la spada difendeva l’insegna redentrice del pastorale. Tra chiesa e palazzo era un ponte, un vincolo. E i mastri, i tagiapiera, i muratori, a scegliere tra quei documenti di diverse civiltà, di diversi riti, di costumi diversi, a misurare, ad appaiare. Questo per la facciata e questo per l’interno, questo per il prospetto e questo per i fianchi, questo per le navate e questo per la crociera. Il marmo di Paros, di bianco avorio, accanto all’arabico candido e più stimato, al cappadoce lucentissimo, al lunense. Gli alabastri trasparenti a vene ondulate e fulve, a spruzzature cristalline col niveo fen-